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Un cambio nella posizione del Magistero sui trapianti?/1

Lucetta Scaraffia

Lucetta Scaraffia

In occasione del quarantesimo anniversario della Harvard School Committee, che cambiò la definizione medica di morte, da allora non più basata sull’arresto cardiocircolatorio ma sull'”encefalogramma piatto, il 3 settembre scorso è uscito sull’Osservatore Romano un articolo della storiografa Lucetta Scaraffia (A quarant’anni dal rapporto di Harvard. I segni della morte, L’Osservatore Romano – 3 settembre 2008).
L’articolo è stato immediatamente ripreso dalle agenzie d’informazione perché sembrava annunciare un cambio della posizione della Chiesa cattolica in tema di trapianti; ma anche perché, per la prima volta nella storia dell’O. R., seguirono quasi immediatamente una dichiarazione del Portavoce del Papa e del Card. Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, che suonarono come una smentita: nessun cambio d’atteggiamento del magistero sui trapianti: essi rimangono un agire medico lecito e un meritevole atto di carità da parte del donatore.

Volendo offrire un breve resoconto dell’editoriale che ha dato l’avvio al caso, va detto anzitutto che non è così facile riportare in sintesi gli argomenti della Scaraffia perché nell’articolo si possono trovare qua e là zone di confusione. C’è confusione tra il concetto di morte come fatto biologico e morte, se vogliamo, nei suoi aspetti simbolici, come evento che rivela la persona in quanto valore. Oppure nel modo di pensare il rapporto tra persona e corpo. Ad esempio quando la Scaraffia mostra, richiamando il precedente della gestante in coma che porta a termine la gravidanza, di non distinguere tra il processo biologico (la gestazione) e le relazioni personali (maternità); salvo poi negare con forza che la morte della persona possa identificarsi con la morte cerebrale, e dunque che la persona stessa possa identificarsi con una particolare funzione o sistema organico, sia pure importante, come le attività cerebrali o il sistema nervoso centrale.
Questa particolare confusione si vede, ad esempio, dove l’Autrice afferma che “nuove ricerche […] mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo”. Il nocciolo di queste novità scientifiche sarebbe che alcuni neurologi, giuristi e filosofi americani ed europei sono concordi nel dichiarare che “la morte cerebrale non è la morte dell’essere umano”.
Qui Scaraffia sembra incorrere in un grossolano equivoco, perché parrebbe identificare l’espressione “essere umano” con l’integrità corporea o, al più, con la totalità psicofisica dell’organismo. In questo modo Scaraffia sembrerebbe credere che la distinzione tra morte cerebrale e morte dell’essere umano si collochi per intero sul piano fattuale (e infatti scrive: “Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile”) laddove dovrebbe invece dirsi che tale distinzione mira piuttosto a rimarcare i confini tra il piano dei fatti accertabili con metodologie mediche (morte cerebrale) dal piano qualitativo e della persona, il piano in cui si collocano, per capirci, la coscienza morale e i diritti umani.

Un metodo più rapido e non eccessivamente involuto, per muoverci all’interno di un testo consiste nel seguirne lo sviluppo prendendo come traccia il reticolo dei rimandi bibliografici. Le citazioni dell’Articolo di Scaraffia rinviano al dibattito bioetico che, a suo dire, porterebbe ad affermare l’opportunità di una rimessa in discussione della definizione medica dello stato di morte.
La Scaraffia sostiene inoltre che la Chiesa nutrirebbe “molte riserve” nell’accettare la dichiarazione di morte formulata dall’Harvard Committee. La vice-presidente di Scienza e Vita cita, al proposito, Morte cerebrale e trapianto di organi, del filosofo del diritto Paolo Becchi, studioso che ha diffuso in Italia l’opera di H. Jonas, l’autore del celebre Principio responsabilità, anch’egli citato nell’articolo in parola.
La tesi centrale della Scaraffia è questa:
«L’idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo – grazie alla respirazione artificiale – è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente».
Scaraffia quindi sostiene che la persona NON CESSA finché il suo organismo è mantenuto in vita, a dispetto della morte cerebrale.
L’argomento usato qui non è nuovo. Esso si trova per la prima volta in H. Jonas, (vedi: Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, tr. it., Einaudi, Torino 1997, Introduzione di Paolo Becchi).
Jonas prende le mosse, condividendola, da una sentenza di Pio XII: «Se si giudica permanente una profonda perdita della coscienza, allora i mezzi straordinari per l’ulteriore mantenimento della vita non sono obbligatori. Si possono sospendere e consentire al paziente di morire». Basterebbe questa sentenza di Pio XII, sia detto qui di passaggio, per risolvere il caso di Eluana Englaro. Con i nuovi criteri di determinazione dello stato di morte sulla base dell’attività cerebrale della Harvard School, secondo Jonas non si tratterebbe più di accertare lo stato permanente di perdita di coscienza per lasciar morire il paziente, E QUINDI prelevarne gli organi per la donazione, ma, ormai, della pura e semplice identificazione della morte con il carattere permanente del coma profondo, per poter disporre di organi per il trapianto nelle migliori condizioni (tecniche) possibili.
Becchi riassume così il pensiero di Jonas, in due frasi che traggo dall’articolo della Scaraffia: “l’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica” [piuttosto che attraverso] “criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili”.
Ma, conclude la Scaraffia, con la successiva accettazione, anche da parte della Chiesa, dei criteri di determinazione dello stato di morte sulla base dell’attività cerebrale, la sentenza di Pio XII è stata stravolta e ciò spiega la contraddizione che vi sarebbe tra le posizioni ufficiali del magistero sui trapianti e quelle su altre questioni, come il trattamento dei feti anencefali e, possiamo aggiungere, recenti casi come quello di Eluana.

Paradossalmente, Scaraffia dichiara che certe proposizioni sono in contraddizione con la dottrina cattolica senza citare neppure una sentenza del magistero ufficiale, ma un ragionamento di un filosofo non cattolico, Jonas, appunto, e un’implicazione avanzata da P. Singer, il filosofo animalista fieramente opposto all’antropologia cristiana: “Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie”. Ma la posizione odierna del magistero sui trapianti si pone come logico sviluppo del pensiero di Pio XII. I ragionamenti di Scaraffia finiscono così col dar torto a Pio XII, pur di non dar ragione a Singer.
Le critiche di Jonas ai criteri dell’Harvard School, si pongono sullo sfondo di una ecofilosofia profonda con una forte strutturazione antropocentrica e immanentista, (incompatibile con ogni antropologia cristiana o personalista) sorretta da una concezione della soggettività umana vista come epitome di una soggettività diffusa nell’ecosistema. Le posizioni di Jonas si spiegano con la sua visione organicista e olista, secondo cui forme di soggettività si trovano fin nelle più elementari strutture della vita biologica. Perciò egli insiste per dei criteri di definizione di morte che tengano conto del corpo come inscindibile totalità. Ma nulla a che vedere con la soggettività aperta al trascendente della tradizione biblica.
Non sono queste le sole bizzarrie che è possibile individuare nella tecnica argomentativa di Scaraffia. E’ possibile che ella sia mossa dall’intenzione di provare l’universalità delle proprie posizioni, a prescindere dal proprio credo. E’ probabile che si sia appellata alle riserve di Jonas sui criteri di morte delineati dalla Harvard School perché questi ha una posizione tuziorista sull’etica della vita fisica, cioè una strategia di difesa della vita che garantisce ampi margini di sicurezza, gradita a molti bioeticisti cattolici, pur senza essere un filosofo cattolico o religioso.
Rinuncio a continuare un’analisi troppo puntuale che mostrerebbe, tra l’altro, anche i gravi errori logici presenti nel dispositivo argomentativo di Scaraffia. In questa sede importa di più osservare che Scaraffia fraintende la dottrina cattolica su questo punto quando attribuisce erroneamente le proprie posizioni anche al magistero cattolico sui trapianti.
Cosa dovrebbe convincerci dell’effettiva esistenza anche nella Chiesa di queste stesse “riserve” nei confronti dei criteri di morte, da quarant’anni quasi universalmente accettati? Il fatto, scrive Scaraffia, che “per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale”.
Come dire: nel caso in cui fosse il Pontefice a trovarsi in situazione di coma irreversibile, non verrebbe indetto nessun conclave per l’elezione del suo successore, senza che il cuore del papa morente si sia prima fermato.
Un bell’esempio davvero (l’unico, che io sappia) di argomentazione bioetica specificamente cattolica.

(continua)

  1. 9 settembre 2008 alle 21:51

    A quarant’anni dal rapporto di Harvard
    I segni della morte

    di Lucetta Scaraffia

    Quarant’anni fa, verso la fine dell’estate del 1968, il cosiddetto rapporto di Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull’arresto cardiocircolatorio, ma sull’encefalogramma piatto: da allora l’organo indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello. Si tratta di un mutamento radicale della concezione di morte – che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale, ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organo – accettato da quasi tutti i Paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti), con l’eccezione del Giappone.
    Anche la Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, ma con molte riserve: per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale. A ricordare questo fatto è ora il filosofo del diritto Paolo Becchi in un libro (Morte cerebrale e trapianto di organi, Morcelliana) che – oltre a rifare la storia della definizione e dei dibattiti seguiti negli anni Settanta, tra i quali il più importante è senza dubbio quello di cui fu protagonista Hans Jonas – affronta con chiarezza la situazione attuale, molto più complessa e controversa.
    Il motivo per cui questa nuova definizione è stata accettata così rapidamente sta nel fatto che essa non è stata letta come un radicale cambiamento del concetto di morte, ma soltanto – scrive Becchi – come “una conseguenza del processo tecnologico che aveva reso disponibili alla medicina più affidabili strumenti per rilevare la perdita delle funzioni cerebrali”. La giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo.
    Come dimostrò nel 1992 il caso clamoroso di una donna entrata in coma irreversibile e dichiarata cerebralmente morta prima di accorgersi che era incinta; si decise allora di farle continuare la gravidanza, e questa proseguì regolarmente fino a un aborto spontaneo. Questo caso e poi altri analoghi conclusi con la nascita del bambino hanno messo in questione l’idea che in questa condizione si tratti di corpi già morti, cadaveri da cui espiantare organi. Sembra, quindi, avere avuto ragione Jonas quando sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall’interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare.
    Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de Mattei, Finis vitae. Is brain death still life? (Rubbettino), i cui contributi – di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei – sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell’essere umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al concistoro straordinario del 1991 dal cardinale Ratzinger nella sua relazione sul problema delle minacce alla vita umana: “Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma “irreversibile”, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica (“cadaveri caldi”)”.
    Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l’idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo – grazie alla respirazione artificiale – è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente. Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: “Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie”.
    Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che “l’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, mentre il nodo dei trapianti “non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte”, ma attraverso l’elaborazione di “criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili”. La Pontificia Accademia delle Scienze – che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard – nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su “I segni della morte”. Il quarantesimo anniversario della nuova definizione di morte cerebrale sembra quindi riaprire la discussione, sia dal punto di vista scientifico generale, sia in ambito cattolico, al cui interno l’accettazione dei criteri di Harvard viene a costituire un tassello decisivo per molte altre questioni bioetiche oggi sul tappeto, e per il quale al tempo stesso costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordati tra laici e cattolici negli ultimi decenni.

    (©L’Osservatore Romano – 3 settembre 2008)

  2. Sebastian
    10 settembre 2008 alle 9:18

    Aspettare che il cuore di un Pontefice si fermi in seguito a situazione di coma irreversibile è una condizione di tutto rispetto. Il Vaticano, può permettersi di protrarre le “cure” fin che vuole e quindi creare santi e sacri modelli da imitare. Certo è che restare senza Papa per un probabile decennio sarebbe un problema non indifferente. Non me ne intendo, ma lo intuisco.

    Non mi sembra sinceramente una strada percorribile ad ampio spettro per il nostro Sistema Sanitario Nazionale e non solo, direi mondiale. I costi per paziente di Rianimazione, perché di questo si tratta, sono esorbitanti. Sono quelli che gravano di più, oltre agli stipendi del personale che io sappia, sulla testa delle Aziende Ospedaliere. Inoltre sono Unità Ospedaliere improduttive, infatti, le Aziende Ospedaliere private aborrano le strutture di Rianimazione.

    La mia posizione oggi è concorde con quella di Ignazio Marino.

    Auspico che la ricerca non si fermi evada speditamente, poichè sono convinto che ancora c’è molto da conoscere.

  1. 16 settembre 2008 alle 22:08

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