Anno B, Tempo ordinario, XIV domenica

litterae-testata

COMMENTO AL VANGELO DOMENICALE

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Il kairòs mancato

Anno B, TO, XIV domenica
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
I nostri occhi sono rivolti al Signore

Mc 6,1Partito quindi di là, andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. 2Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: “Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. E si scandalizzavano di lui. 4Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. 5E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. 6E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando.

La meraviglia, o meglio la “straniazione”, è quasi un elemento dello stampo narrativo di Marco. Ma se all’inizio della missione di Gesù era la folla a provare stupore, oggi è Gesù stesso ad apparire stravolto (ethàumazen, 6a). Mettendo l’inizio e la fine sotto il segno di questa emozione, Marco istituisce un processo d’inclusione narrativo assegnando al brano odierno il compito di chiudere il primo periodo del ministero pubblico di Gesù.
Conoscono Gesù. C’è molta fisicità nel brano, come ci è spesso accaduto di constatare in Marco, ma ora è una fisicità nota, familiare, piena d’intensa affettività, di nomi di persona e di facce conosciute. E’ ancora una volta una trama comunicativa che Marco ci racconta, ma qui la comunicazione si spezza, si frantuma in mille rivoli problematici sotto forma di numerosi punti interrogativi, si blocca: “si scandalizzavano di lui”, cioè lui era divenuto per loro un problema senza soluzione, un problema, se diamo retta alla scelta marciana del termine “scandalo”, religiosamente contrassegnato. Pare che il nodo del conflitto cognitivo avvenga tra ciò che di Gesù è noto da sempre e ciò che adesso egli è diventato per la sua attività kerygmatica. E a far problema non è tanto il fatto in sé che egli compia prodigi o esprima una dottrina che s’impone per la sua autorevolezza. E’ precisamente il suo cambio di ruolo a risultare inaccettabile; è questa discontinuità biografica che estromette Gesù dal suo contesto sociale e di relazioni parentali.
Le nostre certezze religiose sono fatte della corposità biografica delle nostre relazioni fondamentali, di parole e di atti convenzionali che consentono agli altri di inquadrarci in un modo che renda prevedibile il percorso personale di ciascuno e non riservi sorprese. Il bene da tutelare, qui, è la stabilità del gruppo dai deragliamenti mistico-religiosi di qualche suo membro. Per questo, specialmente nelle cose che riguardano Dio, cerchiamo in realtà sicurezza nella conoscenza, e preferiamo più spesso la certezza alla verità.
Di fronte a Gesù si prende posizione. Così si chiude il primo anno di attività pubblica di Gesù, con un fallimento di cui i discepoli sono testimoni (1). Cominciato con lo stupore del popolo di Cafarnao, questa prima stagione termina, si diceva, con la meraviglia di Gesù, costretto a constatare che, all’annuncio del vangelo, nell’incredulità dei nazareni prende corpo una resistenza religiosa. Stando ai vangeli, Gesù di Nazareth non metterà più piede nella propria città, né più in Galilea. Accetta il verdetto e fa tesoro dell’insuccesso citando sopra di sé un proverbio, che appare qui come una personale presa di coscienza del momento, ma anche un’ermeneutica teologica applicata in chiave autobiografica. In altre parole, siamo a una svolta nella vita di Gesù perché sembra che proprio in questo preciso momento egli si faccia consapevole del carattere non episodico di questo suo fallimento, che, al contrario, traccia un segno teologicamente paradossale sull’intera sua missione. La quale, tuttavia, non si ferma.

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