Dopo Puglisi: cosa cambia, cosa resta

Dopo Puglisi: cosa cambia e cosa resta nella chiesa siciliana

GIAMPIERO TRE RE

Relazione al convegno: “Puglisi, il cammino di un’idea”, Polizzi Generosa (Pa) 21 marzo 1994.

Sono passati sei mesi dall’uccisione di Padre Puglisi e da quel 15 settembre dello scorso anno cresce, nella coscienza collettiva della comunità ecclesiale, la consapevolezza di avere avuto tra noi un santo; così come per Chinnici, Falcone, Borsellino maturò la coscienza di essere veramente di fronte ad un salto qualitativo culturale e morale nella lotta alla mafia. Il clero palermitano e siciliano nel glorioso martirio di P. Puglisi ha trovato un suo momento di unità; ha potuto valutare la resistenza oggettiva opposta dalla mentalità e dai codici comportamentali mafiosi all’evangelizzazione della cultura siciliana, ma ha anche avuto prova dell’immensa energia di liberazione racchiusa nel Vangelo.

D’altra parte, la morte di Puglisi ha offerto l’occasione di un’analisi affrettata con la quale si vorrebbe ricondurre all’azione di un ristretto numero di sacerdoti l’immagine di una presunta nuova chiesa che rompe con una non lodevole prassi del proprio recente passato. Sebbene i preti in parola siano spesso tra quegli stessi che negli anni ’70 e ’80 cercavano di tradurre in gesti concreti le “omelie antimafia” del Card. Pappalardo, non era raro, a quell’epoca, poter leggere che un cosÏ sparuto drappello di ecclesiastici impegnati in questa frontiera non potesse additarsi come sintomo di un reale cambiamento di tutta la chiesa siciliana… A me pare che la vicenda di P. Puglisi debba giustamente richiamare l’attenzione sull’opera di tanti uomini di chiesa, ma per altri aspetti che non quelli che la macchina dell’informazione sembra maggiormente apprezzare. In effetti, non è nelle uscite occasionali e nelle iniziative individuali confezionate a misura di quella nuova forma di spettacolo, e ormai fiorente industria, che è l’intrattenimento antimafia, che la chiesa possa assolvere al suo compito peculiare e dare così il suo apporto nella lotta al fenomeno mafioso. In questo senso, la stessa soluzione, una volta indicata dal card. Pappalardo, nota come “rivoluzione degli onesti”, l’´opporre la propria personale giustizia all’ingiustizia di moltiª, rimane ancora qualcosa di molto insoddisfacente, perché priva, in realtà, di un respiro veramente “cattolico”, cioè universalmente e genuinamente “politico”.

Puglisi non ha lasciato pressocché nulla di scritto, niente di organico. Anche per la difficoltà di accedere direttamente al suo pensiero, dunque, il pericolo di un appiattimento della sua personalità in stereotipi di opposte tendenze (il “fra’ Cristoforo antimafia” o, al contrario, il “prete che non faceva rumore”) è un rischio tanto più reale. Tuttavia Puglisi aveva un suo metodo, un metodo pedagogico, che è impresso nelle sue iniziative e nelle persone che egli ha formato. Nel “metodo Puglisi” (evangelizzazione nella promozione umana) si intravvede la sintesi pratica di un preciso programma che, tralasciato il ricorso ad espedienti di facile richiamo sul pubblico più superficiale e distratto, parte da un impegnativo recupero della memoria ecclesiale siciliana.
Sin dagli anni ’60 e lungo tutti gli anni ’70, l’episcopato siciliano ha elaborato le linee di quello che potremmo indicare come uno specifico “discorso sociale” della chiesa isolana. Questa dottrina sociale si distingue dall’altra, più generale, contenuta in encicliche pontificie dalla Rerum Novarum, passando per la Pacem in Terris, la Populorum Progressio fino alla recente Centesimus Annus. Rispetto alla dottrina presentata in queste encicliche, l’insegnamento sociale della chiesa siciliana si segnala per la sua “relatività”, in quanto ad una certa restrizione della visuale geografica dei problemi corrisponde un livello di maggiore concretizzazione delle soluzioni proposte. La dottrina sociale della chiesa siciliana presenta due pilastri fondamentali: la famiglia e la questione del lavoro in Sicilia. Questa linea dottrinale fu applicata, a partire dagli anni ’70, con sempre maggiore insistenza e convinzione, anche alla lettura del fenomeno mafioso. Le radici di tale indubbia evoluzione partono da lontano e si trovano già in alcuni scritti di Ruffini. La cognizione che quest’ultimo possedeva della mafia era certamente assai inadeguata: un’organizzazione criminale come tante altre, insidiosa non più di altre, in Italia e nel mondo; ma egli si guardava bene dal negarne l’esistenza. Egli la faceva piuttosto risultare dalle patologie croniche che i legittimi poteri avevano ricevuto in dote dal disfacimento dello Stato borbonico e dagli errori dei regimi successivi. Nell’opera di Ruffini troviamo già la tendenza, tipica dell’episcopato siciliano degli anni ’70, ad inserire la mafia dentro una complessa rete di interconnessioni culturali e sociali. Tale processo porterà dunque a vedere nella mafiosità non più solo un effetto ma anche una causa dell’arretratezza economica e morale della Sicilia. Il culmine di questa evoluzione è segnato a Palermo, probabilmente, dal convegno ecclesiale celebrato nel 1978, ‘Evangelizzazione e promozione umana’. Gli elementi maturati nella prima fase dell’episcopato di Pappalardo riuscirono a trovare in quell’occasione una loro adeguata espressione ecclesiale, ma non ebbero seguito e non fecero presa nella vita quotidiana delle comunità parrocchiali e di base; non riuscirono quindi a consolidarsi in una prassi comune capace di caratterizzare la fisionomia della chiesa palermitana; fisionomia che rimane, fino ad oggi, frammentata e anonima.
Anche sulla questione capitale della presenza della mafia a Palermo e in Sicilia, nonostante non siano mancati i tentativi, il clero non è riuscito a concertare una strategia globale, lasciando il campo alla buona volontà dei singoli, e talvolta alla fantasia. Sembra che il seme di quella rivolta morale, gettato dal card. Pappalardo agli inizi degli anni ’80 in alcune delle sue celebri omelie, sopravviva piuttosto nel movimento popolare avverso alla mafia che si è andato formando in questi ultimi anni.

La serietà culturale dell’azione di Puglisi risiede nell’avere assimilato la lezione del magistero ecclesiale, in particolare di quello siciliano, ricavandone un progetto operativo. Ed è su questa linea che si può e si deve proseguire per la sua strada. Per quanto riguarda la componente cattolica del movimento antimafia, se si vuole uscire dal velleitarismo, insieme ad una nostra teologia della liberazione occorre elaborare adeguati contenuti politici. Occorre dare spessore politico all’intuizione magisteriale dell’episcopato siciliano circa i due punti strategici della lotta alla mafia: la creazione di una nuova cultura familiare e la moralizzazione del lavoro.
Per avere un’idea dell’importanza del primo di questi due punti programmatici, basterà osservare un fenomeno tanto evidente quanto trascurato nella struttura familistica su cui si fonda il potere mafioso: lo stridente contrasto che esiste tra la fortissima coesione interna tra i membri delle famiglie dominanti della nobiltà mafiosa e la totale disgregazione del tessuto familiare di quelle popolazioni fra le quali Cosa Nostra recluta soldati e manovalanza. Il fenomeno verrà rovinosamente ignorato finché non saranno riconosciute le radici etiche ed umane della antropologia mafiosa. Come L. Sciascia prima e più a fondo di tutti ha capito, Cosa Nostra possiede una sua tenebrosa grandezza umana nel male, una sua moralità e perfino una sua religiosità perversa. La prima strada maestra è dunque quella della famiglia: difendere le famiglie significa immunizzare dal pericolo mafioso le popolazioni a rischio. Occorre perciò investire in cultura; seguire la via dei centri sociali, riconoscere dignità politica al servizio volontario e incentivarlo; educare alla solidarietà.
Il secondo principio programmatico consiste nell’inserire la questione occupazionale, in Sicilia, nella problematica più ampia del risanamento di tutto il sistema dei rapporti tra le forze produttive. Occorre uscire dall’assistenzialismo statale o caritativo per giungere ad una cultura dell’impresa e della cooperazione; la formazione professionale deve prolungarsi in una formazione alla imprenditorialità e all’iniziativa.

  1. 24 marzo 2013 alle 11:04

    dopo puglisi cosa cambia cosa resta… l’espressione frammentata in una cattedrale gremita dopo gli eccidi di mafia , borsellino, falcone, don puglidi condotto fra falsi e profeti. ha un senso nei martiriologi la certezza del santo del proprio prossimo martirio ormai imminente…
    sono le parole sventate di chi non ha perso mai nulla.
    altrove altri stati, altre mafie , parallellismi dellla storia e isotonie.
    e allora… a chi crede ancora nei Miracoli o nelle effimere tautologie.

  1. 15 dicembre 2007 alle 18:23

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