Da questa terra di nessuno. Breve preambolo al dialogo tra credenti e laici

 

Giampiero Tre Re

 

 

 

Non vi è altro accesso al Padre se non per mezzo di me

(Vangelo di Giovanni)

Nessuno conosce il Padre se non il Figlio
e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare

(Vangelo di Matteo)

 

Tutta la teologia è cristologia

È possibile un dialogo tra laici e cattolici su Dio e, se sì, su quale terreno? Quale statuto dovrebbe avere questo confronto; sulla base di quali fonti fondarlo? Quale criterio può essere offerto come controllo delle conclusioni di tale discorso?
In passato simili protocolli di dialogo si appellavano al lume naturale della ragione o all’universalità della legge naturale. Qui di seguito si propone la persona del Cristo come contenuto, principio unitario e struttura formale di questo dialogo, sulla base della considerazione iniziale circa la speciale relazione di Gesù di Nazareth con Dio.
Il motivo di tale scelta risiede principalmente nello straordinario interesse ed affetto che lega a Gesù moltissimi non cristiani, non credenti, atei, agnostici. Un altro motivo è dato dalla costituzione kenotica dell’evento Cristo, che, secondo il cristiano, definisce in maniera paradossale questa speciale relazione di Gesù con Dio: se Gesù è davvero il Figlio di Dio, allora Dio è morto e i credenti devono profondamente ripensare il proprio rapporto col divino; se invece Gesù non è Figlio di Dio, la morte e l’esistenza di Dio sono tuttora in dubbio, dunque gli uomini non hanno ancora chiuso i conti con lui (o, per meglio dire, col sacro).
È proprio l’eccezionalità di tale costituzione ad adombrare l’ipotesi che parlare di Gesù sia possibile anche prescindendo dalla fede, in una situazione storica che si pone in una sorta di deserto o terra di nessuno della fede, ma che non si possa comunque più parlare di Dio senza parlare di Gesù, né si possa parlare di Gesù senza far teologia. La domanda su Gesù e sulla sua dignità messianica, dunque, non è solo il contenuto e il principio unitario del discorso su Dio, ma ciò che determina ogni possibile teologia – anche questa qui, ad limina fidei, per dir così – fin nella sua struttura formale. Così come non si può non comunicare, non si può non fare teologia facendo discorsi su Gesù. Per le stesse ragioni tutta la teologia è cristologia. Si può parlare di Dio senza fede, mai senza Cristo.

L’oggetto del dialogo tra chi crede di dover credere e chi crede di non poter credere

La teologia ha un rapporto del tutto paradossale con l’oggetto del proprio discorso, al quale non può accedere direttamente, ma solo attraverso la conoscenza che di esso ha una singola e ben precisa persona, storicamente vissuta. L’iniziativa, dunque, nel discorso teologico, non ricade tra le cose che dipendono da noi, è una ricerca di cui ci sfugge persino il cominciamento. Il socratico principio d’ignoranza trova nella teologia una singolare applicazione, poiché l’ignoranza circa l’oggetto della teologia è infinita, e non conosce neppure il limite minimo rappresentato dal sapere di non sapere. Si direbbe, piuttosto, un discorso che cerca uditorio e che elegge il proprio interlocutore. In teologia è l’oggetto che saggia il soggetto.
Ad ogni modo, in questo dialogo teologico ciò che conta è trovare un contesto di senso comune in cui gli interlocutori possano riconoscere se stessi e riconoscersi vicendevolmente. Tale contesto può essere il bagaglio morale della tradizione occidentale – come proponiamo qui – di cui Gesù è l’indiscusso fondatore? Il primo problema che incontriamo è il rapporto tra essere e storicità nella sua rilevanza etica e teologica, che fu posto per la prima volta nei termini problematici di quello che S. Kierkegaard chiamò “il dilemma di Lessing”:

«Ci può essere un punto di partenza storico per una coscienza eterna? Questo punto di partenza può avere un interesse diverso da quello storico? Si può fondare una beatitudine eterna sopra un sapere storico?».

Il problema agitato è quello della presunta inconciliabilità teoretica della verità di fatto e della verità di ragione applicato alla singolarità storica dell’evento-Cristo, con la sua pretesa di significanza per la condizione umana universale, che ne rende così affascinante la figura.
La stessa difficoltà si presenta ogni volta che si tenta di esplicitare un contenuto universalizzabile da una fondazione cristocentrica del discorso teologico. È, in ultima analisi, la ragione che spinge il magistero cattolico a fondare il discorso ecumenico sull’opera della Creazione, piuttosto che sulla Redenzione, o a cercare il dialogo con i non credenti sul piano della comune natura razionale.
Vi è poi una seconda questione preliminare: quella dell’impossibilità di raggiungere il nucleo storico del messaggio di Cristo attraverso la spessa coltre costituita dalla storia delle sue interpretazioni ecclesiali.
Le caratteristiche dei discorsi su Gesù (ivi compresa la cristologia) li fanno includere tra le teorie trascendentali, ossia quel genere di discorso che si pone le “domande ultime” sul significato globale e conclusivo dell’esistenza umana. Ora, tutte le teorie trascendentali sono teorie di fondazione del senso: in esse un orizzonte globale di senso è costituito sempre attorno ad un evento, in riferimento al quale un gruppo inizia una propria memoria storica e ad esistere come collettività comunicante, quale cominciamento di ogni possibile successivo comprendere. Quando la verità in oggetto di un discorso non è una verità qualsiasi ma la verità dell’uomo, nessuna verità di ragione può concretamente sussistere né essere compresa se non inserita in un orizzonte di fatto significante, verso il quale converga tutta una comunità comunicante.
L’universalità dei significati, in questo modo, più che un orizzonte già dato, è una sfida continua, giocata sulla capacità dell’evento-Cristo di suscitare sempre nuove risposte alla domanda di senso e nuove prassi di liberazione, nei vari determinati luoghi storici e culturali in cui si pone il kerygma, l’annuncio cristiano.
Il dialogo stesso tra credenti e laici è, nell’arena secolarizzata del mondo occidentale, parte di questa sfida.

Metodo e linguaggio quale problema della fondatezza epistemologica del cristocentrismo nel dialogo interculturale

I problemi del metodo e del linguaggio rientrano nell’ambito della formulazione dello statuto epistemologico di questa nostra proposta di dialogo.
Il metodo è il problema della fondatezza del discorso. La richiesta avanzata dal Concilio Vaticano II in Optatam Totius 16 e Gaudium et Spes 46 individua nella cristologia il metodo della scienza morale teologica7. Non è il caso di sottacere che la proposta conciliare, pur con eccezioni di notevole portata, incontrò le perplessità, quando non l’ostilità, della gran parte dei teologi moralisti per i problemi epistemologici di cui si è già detto. Non di meno, la soluzione prospettata poco sopra non solo servirebbe a superare le difficoltà incontrate nell’incentrare sul Cristo la teologia pratica ma servirebbe ad aprire canali di dialogo interculturale anche fuori della comunità ecclesiale.
Il metodo che andiamo cercando per il dialogo interculturale dev’essere realmente pratico, deve consentire la circolarità tra teoria e prassi. La fondazione del dialogo sull’evento-Cristo richiede un metodo che sia nel contempo fenomenologico e trascendentale, consistente cioè nella ricerca della fondatezza del modello di vita eticamente compiuto, incarnato da Gesù, attraverso la deduzione delle sue condizioni formali-universali di possibilità. Tale metodo riformula il procedimento midrashico seguito nell’esegesi giudaica ed anche da Gesù stesso, quando applica la sua ermeneutica teologica alla prassi veterotestamentaria per lasciare che essa ispiri nuove e più umane possibilità dell’agire. Il midrash interpreta un fatto del passato attraverso le chiavi dei suoi effetti storico-salvifici. Il compimento della coscienza di sé avviene al culmine della storia nella modalità di un comprendersi compreso dentro questa stessa storia. Si sfrutta in tal modo la struttura prolettica della rivelazione, basata sul dinamismo di promessa e compimento e viene a stabilirsi il fenomeno della reciproca attribuzione di senso nella relazione circolare tra l’autocomprensione del soggetto (nel nostro caso, Gesù), la sua ermeneutica attualizzante, il fatto attualizzato ed infine il lettore, che è provocato a sua volta a pronunciarsi su se stesso e compiere la propria autocomprensione. È in quest’ambito che dobbiamo inquadrare il ruolo della morale positiva biblica e magisteriale. La storicità di questa elaborazione etica non va intesa come una destituzione di parte della loro capacità di vincolare universalmente ma piuttosto quale elemento essenziale della loro tipicità epistemologica. Si diceva dell’accostamento al midrash del metodo fenomenologico trascendentale che mira ad estrarre le condizioni universali dell’atto umano soggiacenti alla concretezza dell’agire storico ed all’autocomprensione di Gesù di Nazareth. La prima di tali “forme” è appunto quella dell’immagine dell’uomo riflessa nell’agire di Dio, che si rivela «concretamente», cioè operando attraverso Gesù gesti salvifici di portata storica. Questo agire storico significa l’irruzione dell’Assolutamente Altro nel tempo umano, dando luogo alla fondamentale dialogica fra immanenza e trascendenza. La seconda di tali strutture formali, del resto strettamente connessa alla prima, proviene dalle precise coordinate culturali semitiche dell’autocomprensione del Cristo, per le quali il dato che promana immediatamente dal fenomeno umano non è affatto la dialettica anima-corpo, ma piuttosto la temporalità.
Da qui la concezione dell’uomo come totalità integrata e la visione del corpo come simbolo radicale dell’unità sostanziale della persona, intesa, ancora una volta, nella concretezza del suo permanere nel tempo: il corpo è principio unificante la persona che nella sua presenza di segno storico attesta e riassume un passato mentre con la sua costante progressione promette e anticipa un futuro. Una concezione del tempo lineare e, in un certo senso, “secolare”, plasmato dalle scelte di una libertà drammatica, oltre che dalla Provvidenza divina, apre letteralmente le possibilità della storia, cioè di un tempo “umano”, significante, in quanto orientato verso un futuro assoluto assunto razionalmente. Il modello lineare del tempo soppianta, infatti, il modello “ciclico” che rinserra la libertà umana nel fatale determinismo dell’eterno ritorno.
Una terza forma fondamentale si ripercuote da queste premesse antropologiche sul piano etico: rivelandosi, Dio instaura con l’essere umano una relazione dialogica, la quale fonda la costitutiva interpersonalità del suo interlocutore.
All’interno del campo tracciato da questo dialogo Dio-uomo l’universo si dispiega come un sistema aperto. Il mondo è in un certo senso desacralizzato: spazio dell’incontro col Dio della storia, cessa di esser popolato da divinità che presiedono i cicli naturali e regolano l’attività umana, per divenire specchio della sapienza divina e luogo di un patto libero tra Dio e l’uomo.
Il modello di obbligazione morale che ne scaturisce non è altro che il rispetto del carattere interpersonale di tutte le relazioni umane. Immorale è il chiudersi al rapporto personale; l’amore divino, invece, in quanto modello di ogni apertura all’altro, è “salvezza” e contemporaneamente ideale morale.

La parola diventa persona

Con l’adozione del metodo fenomenologico-trascendentale si fa spazio, all’interno della nostra proposta di dialogo tra credenti e laici, alle varie forme e funzioni linguistiche del discorso morale8: narrativa, normativa, parenetica, metaetica, ma soprattutto, performativa. Il famoso prologo svolge, nel vangelo di Giovanni, la stessa funzione dei racconti del kerygma nei sinottici. In quanto si accampa nel mondo in maniera kerygmatica e kenotica, il “farsi carne del logos” suggerisce che l’evento Cristo è anzitutto evento linguistico. Che cosa avviene esattamente nella comunicazione teo-dialogica? Come abbiamo già detto, l’evento-Cristo, quale irruzione del trascendente nel tempo umano, produce una visione “lineare” del tempo stesso -una storia- una visione “seria” e drammatica della libertà e la concezione del mondo come sistema aperto, dialogico, dove l’elemento antropologico è caratterizzato da una autonomia relazionale in dialogo personale con l’Assoluto. Nella comunicazione etico-teologica trasmettiamo certamente contenuti, vale a dire norme, ma anche “forme”, principi strutturali, quali i presupposti antropologici impliciti nella prassi teologale e convalidati nella tradizione cristologica di quella particolare collettività morale che è la Chiesa. Questo schema generale della dialettica tra immanenza e trascendenza ha creato storicamente le condizioni di pensabilità dei pilastri della cultura etica dell’Occidente: l’autonomia delle realtà mondane, l’irripetibilità e l’unicità di valore della persona, l’universalità della natura umana. Il dialogo che qui viene proposto assume che tale processo non è ancora esaurito.
Accanto alla funzione contenutistico-normativo (in quanto si tratta di un discorso orientato alla prassi) oggi prevalentemente assegnata all’annuncio cristiano, si apre ancora la possibilità di un recupero dell’etica narrativa e della parenesi (in quanto ci troviamo nel contesto di un discorso trascendentale) anche nella comunicazione interculturale. La prassi dialogica, anzitutto, è normativa, capace di vincolare: è il dialogo stesso ad essere imperativo. Le condizioni che lo rendono possibile sono le condizioni minime di condivisione etica richieste agli interlocutori. In secondo luogo, il kerygma ha una sua essenziale proiezione escatologica: il futuro è il contesto di senso dato dalla tradizione morale che si riconosce nel modello di vita eticamente compiuta, offerto da Gesù. Dall’assetto prolettico di tale comunicazione ricaviamo il suo carattere “promettente”, la sua vocazione profetica, la sua capacità di precorrere i tempi attraverso l’ermeneutica esistenziale dei segni dei tempi. Ciò non avverrà senza una reciproca confidenza sull’affidabilità e veracità altrui. Ricordiamo, infine, il carattere performativo di ogni comunicazione morale, e anche del kerygma di Gesù. Non si vuole dire qui soltanto che, per essere autentici, i modi della comunicazione devono rispettare la loro coerenza col carattere kenotico dell’annuncio, ma anche e soprattutto che una “metanoia linguistica”, cambiare la propria prassi di comunicazione etica, è cambiare prassi tout court. Una radicale non violenza procede dai modi della comunicazione e permea di sé i contesti relazionali che la comunicazione stessa instaura.

Ortoprassi e controllabilità del dialogo tra credenti e laici

La critica alla progressiva neutralizzazione, operata nel corso dello sviluppo ideologico della cristianità, della carica provocatoria e rivoluzionaria della figura di leader incarnata da Gesù di Nazareth viene avanzata spesso, e non solo da laici. Molti studiosi, credenti e non, hanno colto un’eterogeneità nella storia della “lettura” dell’evento-Cristo da parte della Chiesa, all’insegna dello spostamento dell’interesse per Gesù dal piano storico-salvifico a quello metafisico-dommatico. Questa versione alienata, fornita dalla Chiesa fin dai primi secoli, sarebbe funzionale ad un processo di normalizzazione del potenziale “eversivo” dell’annuncio originario, al punto che non sarà mai più possibile rinvenire il profilo biografico di Gesù di Nazareth. Naturalmente sono state elaborate anche delle risposte al tentativo di confinare il cristianesimo nel mito, mettendo in chiara evidenza la “pertinenza” etica del discorso teologico, la sua efficacia politica. Quella di E. Schillebeeckx, ad esempio, rappresenta un percorso esemplare di teologia “militante”, in tal senso. L’assunto del discorso di Schillebeeckx è, invece, che l’universalità di valore dell’agire storico di Cristo non è affatto evidente a priori. Si tratta di trovarne un fondamento, che il teologo olandese crede di potere individuare nel rapporto intercorrente tra le cristologie neotestamentarie e le prassi ecclesiali di cui sono espressione, come elaborazione di un’esperienza particolare dell’evento-Cristo. Il nocciolo del discorso, e cioè che «non vi è altro accesso a Dio se non attraverso Cristo» è da intendere nel senso della normatività della prassi concreta di Gesù di Nazareth per la salvezza umana. La contrapposizione tra il Cristo del dogma e Gesù di Nazareth non solo non appare sufficientemente provata, né storicamente né esegeticamente, ma soprattutto non è affatto necessaria crearla appositamente allo scopo di salvare la pertinenza etica e politica del messaggio di Gesù. La storia di Gesù è inevitabilmente anche la storia della cristologia; questa si prolunga prima e dopo l’apparire temporale del Figlio di Dio, proprio perché l’autocoscienza di Gesù è avvertita come normativa dal credente non meno della sua prassi. La portata etica della cristologia è dunque essenzialmente legata al suo particolare status di discorso definitivo sul senso. La pertinenza etica non è conseguente ma immanente al discorso cristologico. C’è una pertinenza etica della cristologia non perché è cristologia ma perché è scienza trascendentale, che ha per oggetto il destino ultimo dell’esperienza umana nella sua totalità di senso. Qui torna utile spendere qualche parola al riguardo del ruolo della filosofia e dell’etica in teologia. Esse, oltre che da terapia del linguaggio teologico-religioso, fungono da dispositivo intersoggettivo di controllo delle sue conclusioni, messo a disposizione dell’intelligenza anche dei non cristiani e dei non credenti. Nel dialogo interculturale, filosofia ed etica svolgono il ruolo di strumentazione critica di garanzia della comunicabilità del discorso, della sua costante riconducibilità materiale e formale al suo fondamento epistemologico.

Nella categoria biblica e antropologica di “Immagine di Dio” non è custodito soltanto un concetto o un fatto, ma piuttosto un compito per gli esseri umani, a prescindere dalle loro credenze il loro esser radicalmente simbolo dell’assolutamente Altro e assolutamente Medesimo, dell’Indicibile, del Dio nascosto e Ignoto, indizio muto al quale la Trascendenza, chenoticamente spogliandosi del proprio silenzio e della propria gloria, dà la parola ed un nome. Ma se tale approssimarsi della Trascendenza non venisse inteso non solo come eventualmente possibile ma come storicamente avvenuto, la carica drammatica della Rivelazione si disperderebbe in un freddo misticismo speculativo. Dovremmo estromettere dai nostri interessi cose come la memoria e il narrare: non esiste storia dove non c’è svolta e dramma, attesa e compimento. P. Ricoeur, vedendo nel “desiderio di essere” il luogo d’origine del discorso etico, si spinge fino all’affermazione che il filosofo può giungere a istituire nel kerygma il simbolo, il quasi-evento del Figlio di Dio come rappresentazione del desiderio umano, del suo continuo invocare l’essere. Compito del credente è mostrare che il kerygma atteso è quello cristiano e questo termine compiuto del desiderio umano è un evento effettivo nella storia di Gesù Cristo.

  1. Sebastian
    23 luglio 2013 alle 13:26

    La Cattedrale resterebbe comunque il simbolo più insigne della memoria cristiana di questa città al di là di tutto. Anzi, a mio parere ne gioverebbe d’immagine la Chiesa di Palermo. Le scelte dei monsignori lasciano nel popolo il tempo che trovano come sempre, tranne che nel piccolo gregge a loro stretto per chissà quali ragioni sulle quali non metto dito.
    Ma il punto fondamentale è che sembrerebbe aver preso piede la tendenza far assumere al Pride (ed in particolare a quello palermitano) la veste di motore trainante per tutte le battaglie sui diritti e sulle libertà civili. Ciò di fatto si è ben visto alla manifestazione partecipata da numerosi associazione che col movimento LGBT non c’entrava niente. Ebbene, il logo, ne è diventato simbolo. E’ diventato strumento inclusivo, “scippato” alle sue naturali origini, per mutare in strumento più ricco e complesso. Fenomeno molto interessante.

  2. Sebastian
    24 luglio 2013 alle 7:26

    Pubblico qui (il moderatore potrà indirizzare il commento su sezione più opportune se lo ritenesse indispensabile), un articolo di Roberto Puglisi apparso stamane su Livesicilia.it, che richiama la questione appena discussa, alimentata dalla vicenda di don Aldo Nuvola.

    “Dal Gay Pride a padre Nuvola. Quando la Chiesa ci vede doppio”

    Qualche settimana fa c’era indignazione negli ambienti ecclesiastici per un simbolo del Gay Pride inopinatamente apparso sulla facciata della Cattedrale di Palermo. Ma come si concilia questa severità col silenzio e la leggerezza riguardo a fatti gravissimi?
    Che cosa sono gli atti osceni per la Chiesa? Qualche tempo fa, per un’immagine ritenuta equivoca rispetto al contesto, e con qualche ragione in senso assoluto, il segretario del cardinale di Palermo, don Fabrizio Moscato, si espresse così su Facebook: “Vergogna! Stiamo toccando il fondo! L’ideologia omosessualista proiettata sul nobile portico meridionale della Cattedrale di Palermo in occasione del Festino della Patrona Rosalia i simboli del Gay Pride e delle unioni omosessuali accostati ad un neonato. Il carro fatto passate a Porta Felice da un cancello con motivi orgiastici. Ma chi può convincermi che è tutto normale? Ma chi può avere argomenti che difendano un vero e proprio insulto alla nobiltà della fede che la Santuzza ed anche la Cattedrale rappresenta? Chi può dirmi che non si tratti di sudicia provocazione?”.

    Basterebbe riprendere le intercettazioni che hanno portato all’arresto di don Aldo Nuvola, in un’indagine per abusi ai danni di ragazzini, e ribaltare l’identica domanda, con un peso centuplicato. Chi può avere argomenti per difendere questa Chiesa, impigliata nel suo doppio sguardo? La doppiezza è evidente. Nel caso del Gay Pride e della Cattedrale – nel caso generico di tutti i gay pride e di tutte le cattedrali – la condanna brucia immediata, senza appello. Si affida a termini che puzzano di cenere sul rogo. In situazioni effettivamente gravissime, vige la prudenza, regnano i distinguo, tutto è sorretto dalla meditazione e dalla cautela che diffidano della fretta. Cambiano scene e protagonisti, cambia l’approccio.

    Quali sono stati i provvedimenti nei confronti di questo sacerdote? Aldo Nuvola non è più parroco, però è ancora prete. In possesso dell’interezza di un carisma che lo ha reso più subdolo nella sua opera di seduzione. Nessuno si è posto il problema, a parte la verniciatura superficiale di una sanzione inadeguata. La presunzione di innocenza vale per ogni cittadino. Ma la Chiesa avrebbe dovuto percorrere ogni angolo del suo ampio potere – operazione che compie alla perfezione, se ritiene che ne valga la pena – per evitare rischi, per capire e vigilare, per giungere al nocciolo della questione con i suoi strumenti. E per isolare un personaggio già incorso in incidenti simili. Così non è stato. L’assenza di reazioni a caldo, l’allusione a un futuribile comunicato hanno già il sapore dell’omissione.

    Non è nemmeno don Fabrizio Moscato – qui citato come mero esempio – il centro della questione. Sarebbe un rinnovato atto osceno concentrare su di lui e sul suo legittimo parere dell’epoca la lapidazione della rivalsa. Sotto accusa è l’ambiguità di un apparato che schiaccia il pedale della pedagogia con criteri personalistici e discrezionali, distinguendo le pecore del gregge, secondo la necessità del sermone, proiettando all’esterno gli strali della sua inesorabilità e spesso sorvolando sui mali inconfessabili che l’affliggono da dentro. Coloro che sono più vicini al pastore, rappresentano la truppa scelta. Nei loro confronti, quando non ci si può esimere da una sacrosanta condanna, si utilizzano toni improntati alla misericordia e alla dolcezza e alla fraterna comprensione che vale come perenne salvaguardia dell’intero corpo. Per gli altri, i reietti, le pecore nere, il fulmine dell’esecrazione è pane quotidiano. Specialmente se la Chiesa, nella sua fragilità, si sente minacciata e avverte come prossimo il sovvertimento del suo ordine e della sua conservazione.

    Stiamo alla vicenda di don Nuvola. Le intercettazioni raccontano abissi di umanità tra l’orrore della violenza inflitta ai più piccoli e la miseria di un’umanità naufraga. Rileggiamole. “Questo amore non conosce umiliazioni… quando uno ama così non ci si umilia mai… ed io non mi sento umiliato per niente… anche se tu sei più piccolo, anche se toccava a te e tutte le min*chiate umane dei ragionamenti umani… tutti i ragionamenti umani per me si mettono di lato perché io sono sempre un parrino…”. Siamo tecnicamente nel cuore dell’atto osceno, gli ingredienti dell’abuso sono riconoscibili. C’è la devastazione dell’indifeso. C’è la blasfemia ‘dell’amore che non conosce umiliazioni’, del sopruso scambiato per sentimento. Nessuna vittima potrà mai riprendersi da un simile contrabbando di significati. Nessuno saprà più mettere le cose al loro posto, l’amore con l’amore, la violenza con la violenza, dopo una tale diabolica predicazione.

    E poi c’è la qualifica: “Sono un parrino”, un prete. E’ la sostanza di un pensiero ‘abusante’ che scorre sotto la corteccia millenaria della Chiesa. Sono sufficienti la qualifica, la tonaca, il distintivo per ritrovarsi iscritti alla cerchia degli eletti, di quelli che, pur sbagliando, saranno sempre peccatori di serie A, con la garanzia di un giudizio mite in terra e nei cieli.

    Noi, il resto del gregge fuori dal recinto, noi, peccatori di infima serie, vorremmo ora una parola chiara. Che distingua l’amore dalla bestemmia. Una parola che dica qualcosa di vero e definitivo sulla differenza di responsabilità tra un segno che sfiora il muro di una Cattedrale e il marchio indelebile impresso nell’anima di un adolescente. Sulla bilancia suprema, ai confini del giudizio e della pietà, cosa pesa di più?

    da Livesicilia del 24 Luglio 2013

  3. Gennaro
    3 settembre 2013 alle 9:49

    Giampiero, ogni tanto vengo a sottoporti le mie riflessioni; potrai pensare che ho il gusto della polemica, ma ciò che mi spinge a trovare le incongruenze nelle scritture è il desiderio di conoscere la verità, una verità che non sia solo comoda.
    Ho trovato un’altra contraddizione nel NT che mi sembra significativa: ill vangelo di Matteo 11:13 Gesù dice: “tutti i profeti e la legge di Mosè hanno parlato del regno di Dio, fino a Giovanni. E, se volete credermi, è Giovanni quel profeta Elia che deve tornare. Chi ha orecchi cerchi di capire”. Qui ci sarebbe da fare una riflessione: Gesù ammette la reincarnazione e la chiesa la nega. Però non è questo il punto. Invece nel vangelo di Giovanni 1:19 leggiamo: le autorità ebraiche avevano mandato da Gerusalemme sacerdoti e addetti al culto del tempio, per interrogarlo. Volevano sapere chi era. Giovanni dichiarò senza esitazione:”io non sono il Messia”. “Chi sei allora, sei forse Elia”? Ma Giovanni disse:”no, non sono Elia”. Gesù afferma che Giovanni Battista è Elia, mentre Giovanni stesso lo nega decisamente. E’ un pò difficile stabilire la verità. Se Gesù fosse stato un uomo potremmo dire che anche lui aveva dei limiti e poteva essere soggetto all’errore, ma visto che la chiesa ci dice che è Dio, il problema esiste. Ciao

    • 3 settembre 2013 alle 10:23

      Lascio a Giampiero la risposta teologica, sulla quale non ho titolo per parlare.
      Però, tanto per parlare di dubbi con cui tutti conviviamo, penso che ci sia un problema di metodo nell’individuare codeste contraddizioni: diciamo un metodo alla Odifreddi; cioè il metodo per non capire e non volere capire nulla della paroloa di Dio. Le Scritture di quella parlano e non sono reperti storiografici; infatti le contraddizioni sono una caratteristuca ricorrente all’interno della Bibbia. Esse vanno lette con essa le uno con le altre, tanto che i compilatori, glossatori e canonisti le hanno bellamente lasciate. Che dire dei due racconti della creazione? Uno in contrddizione con l’altro! E in contrasto con Big Bang Evoluzionisno etc.?
      Il problema non è stabilire se GB sia Elia o no, ma è stabiliere come ognuno di essi legge se stesso e l’altro rispetto all’annuncio. Inoltre la Bibbia non è il Corano, dunque essa è comunque mediata dalla narrazione: non è dettata da Dio, insomma.
      Infine, se si volesse seguire la tua tecnica esegetica, si potrebbe dire che la contraddizione non ussiste, semplicemnte GB non sapeva di essere, per dire, Elia. Ma questo è solo un gioco di logoica aristotelica, non una esegesi del testo.
      IMHO

  4. Gennaro
    7 settembre 2013 alle 18:07

    Kaloscam, ti ringrazio per la risposta che mi hai dato e posso dirti che per me ha il suo valore. Ho l’impressione che tu possa pensare che io cerchi cavilli, come fanno certi avvocati. Devi sapere che qualche anno fa avrei dato la vita per difendere la mia fede. Per ciò che riguarda sia il vcchio che il nuovo testamento, avrei messo la mano sul fuoco, convinto che non me la sarei bruciata. Oggi a ragion veduta credo che avrei perso non solo la mano, ma anche il braccio.
    Tu mi paragoni a Odifreddi, ma sono convinto che io e lui abbiamo poco in comune. Io credo in Dio creatore mentre lui è ateo, se non erro. Per me la figura di gesù Cristo è una figura amica, lo credo un buon maestro. Visto che prima ci credevo nelle scritture e adesso ho dei dubbi, cerco di passarle al vaglio, (leggo costantemente libri di religione), per capire che cosa è verosimile e che cosa è poco attendibile. Gesù si definì: via, verità e vita. Se io cerco un pò di verità non penso di fargli cosa sgradita. Sono un elettrotecnico e nella mia professione le contraddizione si chiamano corti circuiti. Io cerco di evitarli.
    Ti saluto cordialmente con vera stima.

  5. Sebastian
    19 settembre 2013 alle 7:20

    Gennaro, dici che per te la figura di Gesù Cristo è una figura amica e lo credi un buon maestro. Ciò dipende esclusivamente dalla tua lettura delle Scritture?

  6. Gennaro
    19 settembre 2013 alle 16:15

    Sebastian, dipende dal fatto che mi sono formato alla scuola dei salesiani, dagli 11 ai 15 anni, studiavo per diventare prete.La figura di Gesù Cristo mi è entrata nell’anima e per quanto ne faccia una critica razionale, emotivamente ne sono affascinato e condizionato. Ma credo che tutto ciò che è stato detto e scrtto su di Lui abbia affascinato anche la cristianità. C’è un proverbio che dice: gli eroi sono come i quadri, per apprezzarli devi guardarli da lontano. E Gesù è un archetipo e anche un eroe; io mi sono avvicinato troppo e ho finito per vederlo come un comune mortale con i suoi pregi e i suoi difetti. Cerco di liberarmi dalla fascinazione. Più o meno è questo che mi succede. Grazie per la domanda.Ciao

  7. Sebastian
    19 settembre 2013 alle 20:47

    E cosa intravedi al di là della fascinazione nel personaggio Gesù Cristo? Mi pare evidente che per liberartene intravedi qualcos’altro. O no?

  8. Gennaro
    22 settembre 2013 alle 9:19

    Caro Sebastian, propendo verso la filosofia panteistica che afferma che Dio è tutto, cioè è l’essere. Poi io faccio una considerazione: se Dio è una pietra si comporterà da pietra, se è una pianta si comporterà da pianta e così se è un animale, un uomo o un extraterrestre, magari molto più evoluto di noi, si comporterà di conseguenza. Da ciò risulterebbe che noi siamo parte di Dio, anche se nel relativo. Voglio ricordarti che Pico della Mirandola, principe e uomo di una intelligenza fuori del comune, disse ai padri della chiesa che affermavano che l’uomo è un servo inutile:” reverendissimi padri, c’è nell’uomo una scintilla divina”. Come ti ripeto io sono convinto che noi siamo parte di Dio e lo puoi constatare nel fatto che qualunque cosa immaginiamo riusciamo a realizzarla: Parlare da qui con uno che si trova in America e vederlo addirittura; produrre elementi invisibili come le onde elettromagnetiche per mezzo delle quali funzionano la radio , il televisore i telefonini, ecc. e tutte le altre comquiste che tu stesso conosci. Fra qualche migliaio d’anni potremmo avere il teletrasporto, cioè entrare in una gabina, schiacciare un pulsante smaterializzarsi e rimaterializzarsi in America, per esempio. E’ già stato fatto il teletrasporto di un fotone per una distanza di 18 cm, che per un fotone è una distanza enorme. Tutto questo mi fa pensare che l’uomo sia parte di Dio, magari mi sbaglio, ma ne sono convinto e la cosa mi fa star bene. Gesù mi appare come un uomo con qualità splendide, ma pur sempre un uomo. Mi accorgo che mi sono dilungato troppo, perciò ti saluto calorosamente e ti auguro tutto il bene possibile.

  9. Sebastian
    22 settembre 2013 alle 10:34

    No, non ti sei dilungato troppo.
    Comunque qui la questione innegabilmente si complica. Mi pare tu faccia una netta distinzione tra Dio e Gesù. Ma Gesù, non è lo stesso Dio fatto uomo? Non siamo sempre lì quindi?

    Inoltre, pensi che l’uomo sia parte di Dio. Misteri, misteri che solo Dio può svelare a chi vuole. E le sorprese son sempre dietro l’angolo!

  10. Gennaro
    23 settembre 2013 alle 13:22

    Credo che sarò più chiaro dicendo che Gesù, per me, non è IL figlio di Dio e quini Dio, ma un figlio di Dio o meglio parte di Dio, come lo siamo noi, anche se ha più meriti di noi che siamo dei poveretti. A te può sembrare che ho le idee poco chiare, ma a me le cose appaiono chiarissime. Anche se, come ho scritto precedentemente, potrei sbagliarmi, al momento questa è una convinzione che mi soddisfa completamente. Preferisco rischiare di sbagliarmi con la mia testa piuttosto che farlo con la testa di un altro. Alla prossima occasione. Ciao

  11. Sebastian
    23 settembre 2013 alle 19:45

    Si, Gennaro capisco.
    Secondo me, semplicemente (!), stai varcando la soglia della comprensione della SS. Trinità. E pertanto, in qualche modo, percepisci la differenza delle Tre Persone. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ecco cosa ti conduce alla distinzione dei soggetti. Sicuramente non te ne sei ancora reso conto…

    Domanda curiosa: Hai mai sognato di essere un prete con tanto di abito talare, o addirittura di abito cerimoniale, o di dir messa?

    Saluti!

  12. Gennaro
    26 settembre 2013 alle 7:45

    Sebastian, non so se ho capito bene, ma io alla SS. Trinità non ci credo. Alla tua domanda curiosa rispondo di no, ma ho sognato, nel corso degli anni, di essere ancora nell’Istituto dei salesiani nel tentativo di completare la mia formazione sacerdotale. Ti saluto cordialmente.

  13. Sebastian
    26 settembre 2013 alle 7:59

    Gennaro, che tu creda o no alla SS Trinità, non è importante al momento. Ciò che conta è che tu ne inizi un percorso di comprensione. E’ un dono di Dio…

    .

  14. Gennaro
    3 gennaio 2014 alle 21:06

    Caro Giampiero, sto scrivendo un libretto spillato di una cinquantina di pagine da far leggere agli amici, qualche decina di copie e vorrei inserire la tua foto con le tue caratteristiche, così come sono riportate in questo sito. In fondo faccio conoscere il tuo nome e il tuo sito nel mio ambiente e inserisco uno dei tanti dialoghi che abbiamo avuto insieme. Fammi sapere se sei d’accordo. Approfitto dell’occasione per farti gli auguri per il nuovo anno, anche se un pò in ritardo. Spero che ci saranno altre occasioni per ulteriori dialoghi. Ciao

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