Puglisi e Livatino, “Martiri per la giustizia”

«Martiri per la giustizia» in Sicilia

GIAMPIERO TRE RE

Relazione introduttiva al seminario Martirio e vita cristiana, oggi e qui (24 settembre 1994) per la presentazione del volume: S. Barone (a cura di), Martiri per la giustizia, testimonianza cristiana fino all’effusione del sangue nella Sicilia d’oggi. Atti del seminario di studi tenuto a S. Cataldo il 12 febbraio 1994, Studi del centro “A. Cammarata”, Sciascia ed., Caltanissetta-Roma 1994.

In margine all’ipotesi di canonizzazione del giudice R. Livatino e P. Puglisi, assassinati dalla mafia, ci si interroga sulla possibilità di riconoscere il titolo teologico di martire a tutti coloro che, nella consapevolezza morale del popolo siciliano e secondo il “sensus fidei” di questa comunità ecclesiale, sono ritenuti come veri eroi dell’amore per l’uomo e per la giustizia.

Rivolgendosi ai genitori del giudice R. Livatino, Giovanni Palo II, nel maggio del 1993, parlò delle vittime della mafia come «martiri della giustizia ed indirettamente della fede»1. In altre occasioni il Pontefice aveva introdotto analoghi ampliamenti nel concetto di martirio, titolo tradizionalmente riservato a coloro che furono uccisi «in odium fidei»2, parlando ad esempio di «martiri per amore»3.
Dal momento che ci si interroga sulla possibilità di estendere il concetto di martirio a coloro che hanno immolato la loro vita per amore della giustizia4, offriamo un primo contributo tramite una proposta. Si tratta di sottoporre il concetto di martirio al vaglio di quella “legge della crescita organica”, che regola lo sviluppo dottrinale, di cui per primo parlò esplicitamente S. Vincenzo di Lerino (Commonitorium I, 26) e che il Card. J. H. Newmann si applicò a perfezionare nel suo libro Lo sviluppo della dottrina cristiana. Di recente il concetto, noto col nome di «legge della gradualità» è stato ripreso dal magistero pontificio e sinodale ed applicato al campo pastorale e della pedagogia morale5. Non è possibile condurre in questa sede un’analisi che richiederebbe ben altra cura ed attenzione6. Non sarebbe affatto incauto, però, ipotizzare che l’applicazione al concetto di «martiri per la giustizia» dei criteri scoperti dal Lerinese e da Newman per discernere il genuino sviluppo di una dottrina dalla degenerazione approderebbe alla conclusione che ci troviamo di fronte ad un caso di autentico e legittimo sviluppo dottrinale. Nel concetto tradizionale di “martirio”, riconosciuto semper et ubique nella Chiesa sono infatti contenuti in nuce i criteri di ecclessialità, permanenza delle strutture originarie, coesione interna e potere esplicativo del concetto, che ritroviamo in seguito anche nell’idea di «martiri per la giustizia»7.

Estensione del concetto di martirio: osservazioni teologiche.

Il rischio, certo, è quello di banalizzare il senso del martirio cristiano stemperandolo in una sorta di generica religione civile. D’altra parte il titolo di martire che volentieri attribuiamo a R. Livatino, e P. Puglisi, a causa della coerenza del loro impegno civile con la loro fede cristiana, come potrà essere negato ad altri che a questi sono accomunati, non solo per aver sopportato il medesimo sacrificio, ma soprattutto nella coscienza collettiva, nell’ammirazione e nella stima della nostra gente?
Così come ogni martirio riceve la propria forma dall’offerta di senso che promana dal sacrificio della croce di Cristo a vantaggio dell’intera umanità, chiunque avrà avuto fame e sete di giustizia e avrà pianto per essa in questo mondo sarà saziato con la beatitudine riservata al martire. Proprio per il particolare fulgore col quale risplende in lui l’icona di Cristo crocifisso, il martire esprime meglio di noi ciò che siamo tutti noi. Proprio come nella grandiosa visione dell’Apocalisse, il martire fa sempre parte di una schiera (Ap, 7,9-14). Nella persona del martire si attua la concretezza di una Chiesa che è tutta intera, con il fatto stesso di esistere, testimone del mistero pasquale. La Chiesa non ha mai inteso attribuire il titolo di martire in esclusiva: venerando alcuni come martiri essa esalta il valore sotteso alla vita dei molti che noti o oscuri donarono se stessi per amore.
E’ stato sufficientemente messo in chiaro dalla teologia classica che il termine “martire” prima d’essere un titolo che noi attribuiamo, esprime un mandato per il quale il testimone è stato eletto con un atto sovranamente libero dello Spirito8; una missione che, tramite il sensus fidei, la comunità cristiana riconosce ad alcuni suoi membri e al cui compimento coopera con la propria conversione.
E’ comunemente ammessa l’esistenza di un agire salvifico “asintattico” da parte dello Spirito, un agire che sopperisce alle carenze storiche e alla inadeguatezza dei mezzi della predicazione ecclesiale per far giungere la salvezza a tutti gli uomini che cercano Dio con cuore sincero. Questo agire asintattico è un bene anche per la Chiesa visibile, che è in tal modo confermata nella sua serena docilità allo Spirito e alla gratuità della salvezza. Ciò fa sì che le dimensioni “reali” della Chiesa vadano molto al di là della semplice anagrafe battesimale, così come i confini della Chiesa visibile non siano perfettamente sovrapponibili a quelli della Città di Dio, come dolorosamente dimostra l’affacciarsi del fenomeno mafioso in una società nominalmente cristiana. Non dovrà dunque assolutamente stupire che il fenomeno della santità e del martirio possa verificarsi anche fuori dei confini della cattolicità e persino fuori delle forme storicamente assunte dalla cristianità. Si pensi a personaggi come D. Bonhoeffer, M. L. King, Gandhi…
Analogamente, pur riconoscendo la necessità di criteri oggettivi giuridicamente canonizzati, la Chiesa non ha affatto né il potere né la pretesa di ingabbiare lo Spirito in un reticolo legalistico. E’ principalmente il sensus fidei, così come avveniva in origine e come avviene tuttora per il tramite del magistero, che rende l’intera comunità competente nel cogliere la presenza dello Spirito e i segni dei tempi che contraddistinguono il vero martirio. Riconoscere le nuove forme del martirio non solo è possibile ma è addirittura necessario. Non di rado infatti, l’evento del martirio “sorprende” la Chiesa come un monito dello Spirito che la istruisce alla lettura di nuovi segni dei tempi, come un evento che sospinge la necessità di svolte epocali.

La tesi sostenuta da C. Naro a proposito del silenzio della Chiesa sulla mafia.

Nell’articolo Il silenzio della chiesa siciliana sulla mafia: una questione storiografica9, C. Naro vede il motivo principale di tale silenzio nella emarginazione politica in cui la Chiesa, ed in particolare l’episcopato siciliano, venne a trovarsi in seguito all’unità d’Italia. Come conforto alla sua tesi egli afferma che la lettera pastorale Il vero volto della Sicilia (1963) con la quale il card. Ruffini rompe il secolare silenzio della Chiesa ufficiale sulla mafia, rappresenta una svolta che contrassegna un nuovo clima politico di collaborazione tra Chiesa e Stato. Forse il giudizio di Naro è più calzante per quanto riguarda il periodo del liberalesimo al potere in Italia, piuttosto che per l’era fascista e ancor più per l’Italia repubblicana e democristiana (quella che, per intendersi, è indicata oggi come “prima repubblica”). Se infatti in epoca prerepubblicana il clero siciliano osservava un silenzio polemico, ostentando disinteresse per gli affari di uno Stato che la emarginava, di certo non si può parlare di Chiesa delle catacombe a proposito del sostanziale silenzio sulla mafia che si protrae tuttora a partire dalla metà degli anni ’80.
Al proposito debbo dichiararmi in sostanziale disaccordo con G. Anzalone quando afferma che ad una «fase della denuncia» (1975-1985) della Chiesa siciliana sul fenomeno mafioso, siano seguite una «fase della riflessione» e addirittura sia in atto una «fase di evangelizzazione»10. In realtà non si vede alcuna successione di fasi; tutto rimane immobile e silente finora nella Chiesa siciliana, persino dopo il martirio di Puglisi. Non si riscontra nessuna pastorale organica che tenga conto del radicamento storico e sociale della mafia e del suo impatto sull’evangelizzazione, nessuno sforzo per superare il ritardo culturale che gli intellettuali cattolici in genere registrano sul fenomeno mafioso, fino al punto di ripetere frusti luoghi comuni ormai da lungo tempo sfatati dagli studiosi. Il punto di visuale che Anzalone assume (le omelie ai funerali degli uccisi per mano mafiosa) è troppo ristretto perché egli possa dedurne le suddette conclusioni.
Le varie trasformazioni dell’atteggiamento dell’episcopato siciliano di fronte al fenomeno mafioso sono sì da leggere nel contesto del succedersi di sempre nuovi assetti nell’equilibrio di poteri tra Chiesa e Stato ma questa equazione non sempre può esser interpretata univocamente. Le denuncie, specialmente del card. Pappalardo, a cominciare dagli anni ’70, se esprimevano una disponibilità della Chiesa siciliana postconciliare a collaborare con lo Stato per la formazione di una moralità e di una coscienza, anche civica, dei cittadini, aprivano nel medesimo tempo una situazione di radicale conflitto col partito cattolico al potere; fin quando non fu chiaro, intorno alla metà degli ’80, che occorreva o riformulare complessivamente il sostegno dell’episcopato nazionale al partito unico dei cattolici o tacere.

Conclusione

Il martirio di Peppino Puglisi, come ogni martirio, è un simbolo e, come ogni simbolo, è un emblema bifronte. Se da una parte è una stimmata di gloria sul volto della comunità ecclesiale palermitana, è al tempo stesso monito e denuncia profetica contro di essa, dal di dentro di essa: non ci sarebbe bisogno di martiri né eroi lì dove ognuno restasse fedele al proprio compito.
Oggi risulta oltremodo chiaro che il fenomeno mafioso, in quanto esplicitazione di un’antropologia aberrante, ha una sua rilevanza morale e teologica. La pregiudiziale antimafiosa diventa sempre più preliminare in qualsiasi progetto di nuova evangelizzazione che voglia applicarsi seriamente a ricristianizzare la cultura siciliana. Un autentico salto qualitativo dell’azione ecclesiale contro la mafia avverrà quando si sarà effettivamente preso atto che la mafiosità rappresenta, rispetto all’evangelizzazione, un vero e proprio controprogetto, che persegue interessi e scopi programmatici diametralmente opposti a quelli della comunità ecclesiale e rappresenta perciò un oggettivo e formidabile impedimento per la salvezza integrale dell’uomo.

1Cfr. La Sicilia, 10.5.1993, p. 2.
2Cfr. S. TROMP, De revelatione christiana, Romae 1950, 348.
3Cfr. Discorso pronunciato durante la messa di canonizzazione di M. Kolbe, 10. 10. 1982.
4Il presente intervento si avvale soprattutto del libro di S. BARONE (ed.) Martiri per la giustizia. Testimonianza cristiana fino all’effusione del sangue nella Sicilia d’oggi, Caltanissetta-Roma, 1994, che raccoglie gli atti del seminario di studio tenutosi a San Cataldo (CL) il 12. 2. 1994.
5Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris Consortio, 9; 34a.
6Mi permetto di rimandare per le linee storiche e teoretiche essenziali al mio articolo «Legge della Gradualità» in S. LEONE – S. PRIVITERA (edd.), Dizionario di bioetica, Acireale – Bologna 1994, 530-533.
7Cfr. R. FISICHELLA, Martiri per il nostro tempo. Per una teologia del martirio, in Ho Theológos 3 (1993) 325-341.
8«Causa sufficiens ad martyrium non solum est confessio fidei, sed quaecumque alia virtus non politica sed infusa, quae finem habeat Christum» TOMMASO D’AQUINO, Epistula ad Romanos, 8,7.
9in S. BARONE, op. cit., 103-131.
10Vivere e morire da cristiani: le omelie dei funerali delle vittime della mafia, in S. BARONE, op. cit., 93-102.

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