Anno B, Tempo ordinario, XXIII domenica

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COMMENTO AL VANGELO DOMENICALE

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Fuori della folla

Anno B, Tempo ordinario, XXIII domenica
Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-35
Loda il Signore, anima mia

Mc 7,31Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. 33E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà” cioè: “Apriti!”. 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano 37e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!”.
Il “Vangelo della comunicazione” ci parla oggi del dono di comunicare e della comunicazione come originario atto del donarsi. Anche le notazioni geografiche sui viaggi missionari di Gesù fuori dei territori d’Israele, con cui esordisce la pericope, rimandano alla capacità del vangelo di oltrepassare l’ostacolo opposto alla comunione tra gli esseri umani dalla babele dei linguaggi umani. Poco prima Marco aveva annotato che la donna fenicia, beneficata da Gesù presso la città di Tiro, senza discriminarla per le sue origini pagane, era “di lingua greca” (7,26). Ora Gesù incontra una persona le cui naturali capacità di comprensione e comunicazione sono impedite da un male.
La vocazione che proviene da Cristo chiama l’uomo fuori della folla. Lo straordinario talento narrativo di Marco rende con pochissime parole il duplice ostacolo alla comunicazione della salvezza costituito dal paradossale contrasto tra la sordità dell’uomo e il frastuono della folla. Ove il rapporto personale con lui non si può stabilire nell’ascolto, il contatto diviene addirittura fisico, il linguaggio diviene gesto.
Dal fatto che Gesù non teme di contaminarsi viaggiando in territori pagani e addirittura entrando in contatto fisico con essi, possiamo rilevare un prolungamento della riflessione marciana sul concetto di contaminazione rituale, giocata non più sul registro simbolico puro/impuro ma su quello di aperto/chiuso, pervio/impervio (“effatà”, 34) e dunque, ancora una volta, in chiave relazionale e di comunicazione.
L’evangelista enfatizza la gestualità di Gesù, che dovette apparire bizzarra anche ai discepoli, poiché il Maestro si conforma qui ad una simbolica familiare ai pagani ma estranea alla ritualità del giudaismo. Dai numerosi elementi misterici, come il segreto messianico, e allusioni alla prassi sacramentale, come l’epiclesi, si può notare nella narrazione anche la presenza delle primitive comunità petrine della diaspora. In altre parole, la comunità cristiana ha assimilato rappresentazioni simboliche di origine non ebraica, dimostrando che l’ostacolo rappresentato dalla diversità culturale tra giudei e pagani è abbattuto e il linguaggio della salvezza raggiunge qualunque uomo con la parola e col gesto.
Ma la comunicazione di cui Gesù è portatore non è un semplice scambio di significati come avviene in qualunque comunicazione.
L’Evangelista ci fa sapere che il sordomuto immediatamente dopo il miracolo “parlava correttamente”. Com’è possibile questo essendo stato fino a quel momento il soggetto completamente privo delle condizioni di apprendimento del linguaggio? E’ chiaro che il miracolo non si limita ad aprire i sensi della persona ma ne sana anche la mente, istituendo di fronte a sé il proprio interlocutore (34). La comunicazione della salvezza libera la capacità umana di comunicare creando nella persona una competenza perfetta di comunicazione col soprannaturale.

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