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Il silenzio e la resa. In memoria di Cataldo Naro

Giotto, Il sogno di Innocenzo, Assisi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giotto, Il sogno di Innocenzo, Assisi

 

Di Cataldo Naro, Arcivescovo dal 2002 al 2006 della diocesi col più alto tasso di connivenza tra clero e mafia, Monreale, si racconta che non possedesse le chiavi dei cancelli della sua abitazione, il Palazzo Arcivescovile, che condivideva con il suo predecessore, Mons. Cassisa.
Il nome di quest’ultimo compare in quel vero e proprio cahier de doléance che nel 1993 (allora Cassisa era indagato per corruzione) un gruppo di laici rivolse a Wojtyla, in visita in Sicilia. Di Salvatore Cassisa si dice anche che abitasse nel Palazzo arcivescovile di Monreale da quando il vescovo di cui avrebbe preso il posto, Corrado Mingo, gli assicurò l’appoggio per la sua candidatura alla successione in cambio della promessa, in seguito non onorata, da parte del futuro vescovo Cassisa, di lasciarlo abitare in quel palazzo fino alla morte.
Non saprei dire dove abiti oggi Cassisa, ma ho sempre trovato rivelatore l’aneddoto della sua convivenza con Naro, nello stesso Palazzo di cui il giovane titolare non possedeva la chiave. Vi vedo la parabola della visione e della vicenda esistenziale di Naro circa il rapporto tra Chiesa e Mafia.

Il discorso di Naro su questo rapporto parte dalla contestazione della tesi della svolta che l’episcopato di Pappalardo avrebbe rappresentato rispetto alle posizioni di Ruffini sul tema. Secondo Naro, Ruffini ne aveva una comprensione apologetica, Pappalardo una più chiara e articolata. Quella che Naro chiama “scelta culturalista” della Chiesa siciliana, tuttavia, induce a porle sostanzialmente sullo stesso piano. Anche il numero considerevole d’interventi di Pappalardo sull’argomento, contro l’unico di Ruffini, non cambia la sostanza dell’approccio, che rimane quello tradizionale della morale cattolica ufficiale. Nell’interpretare l’atteggiamento dell’uno e dell’altro nei confronti della mafia, Naro applica con sicurezza una stessa chiave di lettura, quella del rapporto tra la Chiesa meridionale e lo Stato, a partire dall’Unità d’Italia, nei suoi riflessi sulle concrete prassi della politica ecclesiastica. «Gli archivi ecclesiastici dimostrano che la Chiesa del tempo sapeva cos’era la mafia e anche chi erano i suoi capi»: da questo suo punto di vista storiografico Naro trovava che aver posto fine al silenzio, da parte di Ruffini, sia pure con oblique intenzioni, rappresenti la vera novità rispetto al passato, più che la tambureggiante omiletica di Pappalardo rispetto a Ruffini.
A tutto l’episcopato siciliano, infatti, secondo Naro, è sempre mancata “una valutazione del fenomeno, un suo giudizio alla luce del Vangelo”, come egli dichiarò in un’intervista del 2003 (la sottolineatura è mia). Dobbiamo attendere il maggio del 1993, il “grido” di Giovanni Paolo II contro la mafia nel discorso conclusivo della sua terza visita apostolica in Sicilia, per assistere ad una vera novità: «Con il discorso del papa si aggiunge qualcosa di nuovo […] fa comprendere che la resistenza alla mafia non si gioca solo sul piano civile, ma con il retroterra di fede dei credenti», sostiene in quella stessa intervista. Egli riteneva che tra questa condanna della mafia e l’assassinio di Padre Pino Puglisi, nel settembre dello stesso anno, vi fosse un profondo legame di senso, non solo di tempi. Questo legame di senso lo individuava rilevando una svolta linguistica: «Il papa, che invoca il giudizio di Dio e indica la mafia come peccato sociale, è il primo a parlare con categorie ecclesiali».

La questione sollevata da Naro, dell’essenza e dell’assenza di uno specifico discorso cristiano sulla mafia, non si esaurisce nella selezione di categorie appropriate, ma nasconde una critica implicita alla comunità ecclesiale. Definire la mafia “peccato sociale” o “struttura di peccato”, piuttosto che “organizzazione ingiusta”, non è, insomma, solo una questione di nomi e di etichette, ma nel contempo lascia intendere che l’uso di specifici linguaggi condiziona la percezione del fenomeno. I linguaggi della sociologia e della criminologia non sono adatti a cogliere gli aspetti religiosi del fenomeno mafioso, se non parzialmente, cioè sotto il solo profilo della loro rilevanza culturale. Gli aspetti religiosi si rivelano soltanto sotto la lente del linguaggio specificamente teologico ed in sua assenza, semplicemente, scompaiono. Non è che la Chiesa taccia perché non percepisca il fenomeno mafioso, ma è piuttosto vero il contrario: vede ciò che tutti vedono, ma neppure essa riesce a vedere ciò che nessun discorso, se non la parola cristiana, può dire.

Perché questa disabitudine, questa scarsa dimestichezza da parte del clero siciliano col proprio specifico linguaggio? Forse fu anche questo un effetto dell’intricata storia dei rapporti tra la Chiesa siciliana e il potere civile? L’ansia della Chiesa di continuare ad affermarsi come voce autorevole, in un’arena divenuta ormai multiculturale, usando linguaggi univoci e “profani”, provocò un’equivoca autocomprensione ecclesiale? O dobbiamo risalire alle modalità storiche dell’inculturazione del cristianesimo e dell’evangelizzazione in Sicilia?
Sui possibili motivi, Naro, per rigore storiografico, tace, trattandosi di interrogativi che, così posti, sollecitano il lavoro del teologo, più che lo storico. Per Naro è chiaro, comunque, che la necessità di parole cristiane sulla mafia non riguarda solo un modo nuovo di vedere l’oggetto di questo nuovo discorso: la mafia; ma anche il suo soggetto: la Chiesa. Nuove prassi pastorali, nuovi modelli sacerdotali e dunque un nuovo rapporto tra laici e clero: «È un passo in avanti anche nel modo di intendere il ministero sacerdotale», sostiene Naro a proposito della vicenda di Puglisi.
La novità doveva certamente investire, nell’idea che se ne faceva Naro, anche il ruolo degli intellettuali e dei teologi nella Chiesa. La sua istanza circa la necessità di parole cristiane per raccontare realisticamente la mafia risale a ben prima del 1993. Poi, tra il 1994 e il 1995 escono, a pochi mesi di distanza, gli atti di due seminari del Centro di Studi “A. Cammarata”, ispirati, nel tema, da Naro e inseriti nella collana da lui stesso diretta. Fin dai titoli risulta chiaro il suo programma di elaborare categorie di base per una lettura teologica della Mafia: “Martiri per la giustizia” e “Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia“. La prima delle due raccolte di saggi voleva vincere la riluttanza di Roma ad applicare il titolo di “martirio” ad uccisioni quali quelle di Livatino e Puglisi (ma forse anche Borsellino e Falcone) a motivo dell’assenza del movente dell’odium fidei. La seconda raccolta ruotava attorno alla possibilità di applicare al fenomeno-Mafia due nuovi termini, elaborati negli ambienti teologici latinoamericani, poi accolti nel vocabolario di quell’episcopato e, infine, del magistero di Giovanni Paolo II: “struttura di peccato” e “peccato sociale”.
A dodici anni di distanza, i risultati di quell’operazione culturale di Naro appaiono contraddittori.
Da una parte, se una volta il discorso dei cattolici sulla mafia si limitava ad importare linguaggi, per così dire, secolari, oggi termini come “struttura di peccato” cominciano ad essere accolti nella produzione scientifica e letteraria della cultura laica, come in Andrea Camilleri (Le pecore e il pastore) e Umberto Santino (Dalla mafia alle mafie); d’altra parte, sembra non possa darsi torto allo stesso Santino, quando afferma che «le espressioni “struttura di peccato” e “peccato sociale” […] sono delle bucce vuote» e che l’impegno di teologi come Naro «non è riuscito a spostare il baricentro della Chiesa» nel suo atteggiamento riguardo alla mafia.
Ma perché ciò è avvenuto?
Il vino di un nuovo discorso cristiano sulla mafia non può essere semplicemente versato negli otri della vecchia ecclesiologia o della vecchia morale. Anche i teologi siciliani hanno fatto la loro parte nel fallimento della linea di Naro. Un esempio assai chiaro si può ricavare rileggendo proprio il volume Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia. Il teologo palermitano Cosimo Scordato, ad esempio, celebre per il suo impegno proprio su questi temi, quando indica nell’espressione “struttura di peccato” uno strumento per la comprensione cristiana del problema, e non anche una categoria “operativa”, mostra di non cogliere come parte integrante del concetto la necessità di una ristrutturazione dell’autocomprensione ecclesiale, se si vogliono cogliere fino in fondo gli aspetti religiosi della problematica mafiosa.
Ma è soprattutto nel saggio del teologo moralista Salvatore Privitera, in appendice, che si ode il rimbombo della caduta di una pietra sepolcrale sul discorso portato avanti da Naro e dai suoi collaboratori. In nome di una concezione rigidamente individualista, ontologista e formale di oggettività, il teologo di Acireale nega la stessa logicità interna dei concetti di “struttura di peccato” e “peccato sociale”, in quanto categorie “intersoggettive”, che investono responsabilità collettive. Ma soprattutto in nome dell’esaltazione di un’astratta normatività del discorso morale, Privitera ignora la funzione performativa del linguaggio teologico, cioè la sua capacità di cambiare la vita e le prassi, innanzi tutto, del suo portatore, la Chiesa stessa.

Divenuto Arcivescovo di Monreale, Naro doveva sperimentale sulla propria pelle ciò che col suo lavoro di storico aveva forse intuito e cioè che la mafia non è semplicemente un corpo parassitario ed estraneo alla Chiesa e che la lotta della Chiesa alla mafia non poteva non essere anche la lotta di un’intera comunità con se stessa.
Proprio ieri, nel ricordarne la figura con un’insegnante di religione della diocesi di Monreale, sono venuto a sapere, dalla collega, della passione con la quale Naro le contestava un complesso progetto basato sul dialogo interreligioso in un paese dell’entroterra palermitano, in cui sono sempre mancate le basi minime dell’evangelizzazione.

In ricordo di Aldo Naro, Arcivescovo di Monreale: voce in un Palazzo chiuso e silenzioso, resa di un martirio senza sangue.

  1. MARIA
    14 ottobre 2007 alle 15:29

    Caro Professore qual’è il suo contributo alla nostra diocesi? Ci racconti, è facile giudicare l’operato altrui!

  2. 14 ottobre 2007 alle 23:08

    Specialmente quando ci si nasconde dietro l’anonimato.
    Che rispondere a simili domande? Che c’è da aggiungere all’essere in Cristo perché un’esistenza cristiana possa dirsi compiuta?

    Lei certamente converrà che “l’allargamento degli orizzonti”, che mi raccomanda, non può avvenire rassegnandosi al press’a poco.

    Devo pregarla, ancora una volta, di non divagare e attenersi al tema della discussione: Naro e Cassisa; se fenomeni abnormi quali le connivenze tra mafia e uomini di chiesa, e il profondo radicamento della mafia nella cultura cristiana della nostra gente, possa spiegarsi proprio con la particolare storia dell’evangelizzazione della Sicilia e del Meridione d’Italia. Grazie.

    P. S. Non ho ancora ricevuto il suo curriculum.

  3. MARIA
    15 ottobre 2007 alle 7:29

    Un fenomeno che, da tempo e un po’ dovunque, è andato caratterizzando negativamente la vita sociale , è il diffondersi e il radicarsi di una mentalità esageratamente soggettivistica. E un male oscuro che da noi assume toni ancora più esasperati per il suo innestarsi in un fondo tipicamente individualistico della nostra cultura. Purtroppo bisogna riconoscere che neppure molti cristiani riescono a rimanere sempre immuni da questa vera malattia della socialità. Egregio Professore Tre Re, lei
    non si rende pienamente conto dell’azione di satana, specialmente in diversi settori religiosi, lei incentra tutto sul fenomeno sociale detto “mafia”.
    Don Giuseppe Puglisi ha incarnato pienamente questa duplice forza del Vangelo: egli rappresenta un’indicazione per tuffi noi; azione spirituale e sociale!
    Riporto delle frasi del card. De Giorgi su Naro:
    sua visione di fede è diventata sempre più luminosa, come risulta dalla sua azione apostolica, tesa soprattutto ad aiutare l’uomo di oggi, disorientato dal secolarismo, dall’agnosticismo, dal relativismo, a ricercare e ritrovare Dio, proponendo lucidamente le vie idonee a far dialogare fede e cultura, nel rispetto della verità e con la forza del dialogo aperto a tutti, ma senza sconti e senza cedimenti, favorito in questo dalla sua vasta e profonda cultura e da una eccezionale capacità di leggere i segni dei tempi alla luce del Vangelo e della sana ragione».
    Ha tanto lavorato, gioito e sofferto, monsignor Naro, nella sua vita e nel suo ministero pastorale – conclude l’arcivescovo di Palermo -. La sua morte improvvisa e prematura è una gravissima perdita anche per tutta la società siciliana, della quale, come pochi, conosceva le luci e le ombre e alla quale offriva il prezioso apporto per promuoverne le luci e per debellarne le ombre, soprattutto quelle più oscure della mafia, esortando al rispetto della legalità e alla giustizia sociale».
    Un fatto a cui non ho trovato risposte è questo:
    L’Arcivescovo Naro, è stato vittima di un’aggressione da parte di alcuni “fedeli” esagitati, all’uscita della parrocchia Santa Fara in Cinisi (9 giugno 2006), dopo aver amministrato il sacramento della Cresima. Nel corso di quella celebrazione, Mons. Cataldo Naro, aveva annunciato il trasferimento del parroco don Nino La Versa.

  4. MARCO
    15 ottobre 2007 alle 23:05

    “MARIA” mi mandi la tua email?
    ciao

  5. MARCO D.
    16 ottobre 2007 alle 20:23

    .La scommessa sulla parrocchia
    Articolo su «Avvenire» del 9 giugno 2004

    Il pronunciamento sulla parrocchia, ieri pubblicato dalla Conferenza episcopale i-taliana, viene da lontano, riprende cioè un discorso che i vescovi italiani hanno proposto e riproposto dal Concilio in poi: la parrocchia, pur con tutti i suoi limiti e difficoltà ed anche nella varietà delle sue configurazioni nelle diverse regioni del Paese, resta fon-damentale per la presenza del cristianesimo in Italia e per l’azione pastorale della Chie-sa. È una risorsa decisiva per il legame degli italiani con la Chiesa.
    Già nel 1970, allorché si avverte che la società italiana è investita da profonde tra-sformazioni culturali, i vescovi manifestano, in un impegnativo documento sul rinno-vamento della catechesi, la convinzione che la parrocchia «respira la vita della Chiesa universale, coltiva il senso della diocesi, procura di allargare le sue possibilità educative aprendosi a forme di collaborazione interparrocchiali». Per tutti gli anni ottanta e novan-ta torna nei documenti episcopali l’affermazione che la parrocchia è «l’espressione più comune e concreta della comunità cristiana», anche se le si chiede di assumere una di-mensione più marcatamente missionaria e una nuova capacità di inserimento solidale nella società, come fa il documento sul Mezzogiorno del 1989 in cui è richiamata l’immagine di Giovanni XXIII sulla parrocchia come fontana del villaggio cui tutti pos-sono ricorrere per la loro sete. E di parrocchia quale «comunità missionaria e soggetto sociale sul territorio» torna a parlare il testo che i vescovi pubblicano nel 1996 dopo il convegno delle Chiese d’Italia a Palermo dell’anno precedente. E infine, all’inizio del nuovo millennio, gli «Orientamenti» per il decennio in corso scorgono nella parrocchia il vero punto di forza della cattolicità italiana e ne rilanciano la centralità nella pastorale.
    Con la Nota ora dedicata interamente alla parrocchia i vescovi senza tentennamenti di-cono che la Chiesa italiana non intende fare a meno di una risorsa che le permette anco-ra oggi di radicarsi nella società, di farsi trovare presente nel territorio e di realizzare la sua scelta di essere «popolare», cioè rivolta a tutti. Di farsi, in questo senso, portatrice di un diffuso senso di Dio, e anzi di radicarsi sempre più in un sentimento cristiano della vita che sia largamente condiviso nella nostra nazione.
    Per una Chiesa che si confronta con un contesto culturale in forte movimento e ancora largamente venato di spinte secolarizzanti, ci sembra – questa – una scelta chiara e coraggiosa. Individuare nella parrocchia la propria «via» di presenza e di azione pasto-rale significa precludersi, di fronte alle difficoltà dell’esercizio della sua missione, ogni via di fuga di tipo elitario sul piano spirituale e organizzativo. E comporta la consapevo-lezza che il debito di annuncio del Vangelo, che è proprio della Chiesa, è davvero verso tutti, compresi ed anzi specialmente quanti sono o appaiono ai margini della nostra so-cietà.
    Come pure implica l’assunzione di un compito di responsabilità nell’alimentazione e, oggi, anche nella creazione o ri-creazione di una cultura popolare segnata dal riferimento alla tradizione cristiana.
    I vescovi non si nascondono le difficoltà della loro scelta. Difficoltà che derivano dai mutamenti culturali e sociali sempre più rapidi e consistenti, ma anche da certe iner-zie e da certe «derive» che le parrocchie sperimentano e che la Nota non manca di de-nunciare apertamente. Alle parrocchie e alle diverse figure che ne animano la pastorale, a partire dai parroci, i vescovi chiedono di farsi carico di quello slancio missionario che la Chiesa italiana avverte, ormai da qualche tempo, come una vera e propria urgenza per rispondere all’attesa del Vangelo che vive nel cuore degli uomini del nostro tempo. E, perciò, di convogliare verso orizzonti chiaramente missionari (anche di primo annuncio) le risorse di cui già dispone e di tentare vie nuove di evangelizzazione, valorizzando la possibilità di «integrazione» con le iniziative delle parrocchie più vicine ed anche con le istanze diocesane e le aggregazioni che superano il livello parrocchiale. È, in fondo, l’appello ad un coraggio e ad una creatività che sembrano richiesti dall’urgenza missio-naria dell’oggi.
    Sarà accolto l’appello dei vescovi? La Nota trasmette un sentimento di ottimismo. Se la parrocchia nel secolo scorso ha saputo con flessibilità e inventiva accompagnare il cammino della Chiesa italiana e farsi carico del suo compito di trasmissione della fede, perché non dovrebbe continuare a farlo? È una sfida da cui dipende il futuro della catto-licità italiana
    Caro Giampiero, mi permetto di aggiungere dei quesiti personali , a quest’articolo.
    1°) Il cristianesimo esige una conversione delle persone, un’adesione di ogni singola persona. Si rivolge alla libertà di ciascuna coscienza, spronata dal sacerdote, il quale a sua volta dev’essere appoggiato dal vescovo. Al giorno d’oggi, avviene proprio questo nelle diocesi?
    2°) I vescovi prendono esempio dal modello di Naro?

    Con affetto e stima
    Marco

  6. Marco D.
    16 ottobre 2007 alle 20:25

    Monsignor Bagnasco rilancia il progetto culturale

    CITTA’ DEL VATICANO – La Chiesa Italiana e’ chiamata a “coniugare lo sforzo di vivere, pensare e ridire il Vangelo nella cultura della nostra epoca, con l’imprescindibile alimentazione alla Sorgente di ogni vita cristiana”. Lo afferma il presidente della Cei, Angelo Bagnasco (nella foto), nell’introduzione al volume “Torniamo a pensare. Riflessioni sul Progetto Culturale”, che raccoglie gli interventi dell’arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro, scomparso improvvisamente l’anno scorso, impegnato in prima persona in questa iniziativa della Cei benedetta da Papa Benedetto XVI al Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona e in occasione della visita pastorale a Pavia. “Il profilo della ricca personalita’ di Monsignor Naro – scrive il presidente della Cei – evidenzia in primo luogo un vero respiro spirituale. Nei testi raccolti in questo volume emerge a più riprese la sua attenzione alla “vita dello spirito”. Da consulente del Servizio nazionale per il progetto culturale, egli curò un seminario di studio su Spiritualita’ e progetto culturale, teso a un riferimento agli scritti di Monsignor Naro, l’Arcivescovo Bagnasco, sempre nell’introduzione, aggiunge: “Mi sembra che questi testi, esemplare anticipo della ricchezza contenuta in questo volume, riescano a far cogliere quanto il progetto culturale debba al contributo di riflessione che Naro non ha mancato, umilmente, di offrire, da ultimo come presidente della Commissione Comunicazione e Cultura della Cei e vice presidente del Comitato preparatorio del Convegno Ecclesiale di Verona. Spero – aggiunge Bagnasco – soprattutto, che questa mia presentazione sia davvero utile al lettore per invogliarlo con passione, a scoprire Cataldo Naro, vescovo e amico”. Il volume, curato dal Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della Cei, sara’ presentato il 16 ottobre a Roma (all’Istituto Luigi Sturzo) dal segretario della Cei, Monsignor Giuseppe Betori, e dal leader della Comunita’ di Sant’Egidio Andrea Riccardi. Parteciperanno anche don Antonino Raspanti, preside della Facolta’ Teologica di Sicilia, e il coordinatore del Progetto Culturale Francesco Bonini.

    http://www.papanews.it/news.asp?IdNews=3475#a

  7. 16 ottobre 2007 alle 21:12

    Caro Marco,

    Ti ringrazio per il tuo lavoro; in particolare per il commento qui sopra. Non sempre c’è il tempo di seguire tutto. Ancora grazie.
    Se i vescovi prendono esempio da Naro? Certo, egli è stato una figura di rilievo nel cattolicesimo italiano in questo primo scorcio di secolo. Sentire certe parole che gli stavano a cuore, come “popolare”, divenire centrali in un piano pastorale nazionale fa un certo effetto. Però forse è ancora un po’ presto per dirlo, ed il silenzio su altri elementi importanti del discorso di Naro ci dicono che l’assimilazione della sua lezione è, semmai, solo all’inizio. Io penso comunque che si deve iniziare in Sicilia e nel meridione a raccogliere la sua eredità e se si vuol farlo seriamente si deve accettare l’idea scomoda e difficile di mettere in discussione i processi storici dell’inculturazione del vangelo nel meridione d’Italia.

  8. 16 ottobre 2007 alle 22:00

    Per Lory,

    ho cercato di documentarmi più accuratamente riguardo alla sanzione comminata a Cassisa nel caso si fosse rifiutato di lasciare l’attico del Palazzo arcivescovile di Monreale. Debbo ribadire che la sospensione a divinis gli sarebbe stata inflitta come extrema ratio.

  9. Marco D.
    17 ottobre 2007 alle 7:40

    IN ONORE A CATALDO NARO RIPORTO L’OMELIA DELLA MESSA ESEQUIALE, Cattedrale di Monreale

    ——————————————————————————–

    Eminenze Reverendissime,
    Eccellentissimo Nunzio Apostolico in Italia,
    Venerati fratelli nell’episcopato, nel presbiterato e nel diaconato,
    Onorevoli Autorità,
    Carissimi fratelli e sorelle amati dal Signore.

    “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato” (Gv 17, 24–26).

    1. Questo tratto della preghiera sacerdotale di Gesù, sgorgata dal suo cuore nel momento culminante di un amore che ha amato sino alla fine e si è donato totalmente sino all’olocausto supremo della vita, rivela non semplicemente un desiderio, ma l’ansia struggente e la volontà risoluta del Maestro, perché i suoi Apostoli, dono privilegiato del Padre, fossero sempre con lui nel tempo e nell’eternità.
    Quel “voglio”, supplicante e imperioso insieme, col quale nell’imminenza della morte, Gesù si rivolge al Padre, è l’espressione di un mistero insondabile che avvolge la vita di ogni cristiano, ma afferra soprattutto l’esistenza di coloro i quali, a somiglianza degli Apostoli, sono chiamati alla sua sequela più diretta e totale.
    Degli Apostoli non è scritto forse nel Vangelo che Gesù scelse quelli che egli volle perché stessero con lui? (cf. Mc, 3,14).
    Essere con lui per contemplare la sua gloria!
    È qui l’origine di ogni vocazione cristiana, ma soprattutto di quella sacerdotale ed episcopale. È anche qui la sua ultima destinazione e la ragione più profonda che ne chiarisce il senso e ne stimola il dinamismo apostolico.

    2. In questa luce la parola di Dio che abbiamo ascoltato ci invita a leggere la non lunga vita e la repentina morte dell’angelo della Chiesa Monrealese, S.E.R. Mons. Cataldo Naro, avvenuta venerdì scorso nella festa liturgica dei Santi Arcangeli, che in cielo sono davanti al Signore per servirlo e contemplano la gloria del suo volto.
    In questa luce mi è apparsa, da quando l’ho conosciuto, la sua figura di sacerdote e di Vescovo e la sua missione di Pastore.
    Una missione, da lui considerata un servizio di amore a Cristo e alla sua Chiesa, alla Chiesa universale, alle Chiese che sono in Italia, e in particolare sia alla Chiesa di Caltanissetta che lo ha generato 55 anni fa alla vita cristiana e 32 anni fa al sacerdozio ministeriale, sia alla Chiesa di Monreale, alla quale il 18 ottobre 2002 è stato donato da Dio come pastore e alla quale si è donato totalmente con la carità del Buon Pastore.
    La sua lettera pastorale, “Amiamo la nostra Chiesa”, ne è l’attestazione sponsale più significativa e sincera, rivelatrice non solo del suo stile pastorale nel servire la Chiesa, ma anche, e direi prima ancora, della sua spiritualità sacerdotale, anima del ministero apostolico, come servizio di amore a Cristo e alla Chiesa.

    3. In quella lettera Mons. Naro da una splendida pagina scritta da Romano Guardini sul Duomo di Monreale nella Settimana Santa del 1929 trasse cinque motivi per amare la Chiesa: la bellezza straordinaria del tempio materiale, il fascino suggestivo del popolo in preghiera, la trascendenza coinvolgente della liturgia, la presenza ministeriale del Vescovo, il legame tra la Chiesa pellegrinante sulla terra e i santi che vivono nella luce inalterabile del Risorto. Ma è su quest’ultimo che egli pose l’accento, come sintesi degli altri.
    Ciò rivela anzitutto la consapevolezza, resa più motivata in lui dalla conoscenza vasta e profonda della storia della Chiesa, che la tensione alla santità, alla quale tutti siamo chiamati a motivo del nostro inserimento in Cristo Risorto, è il punto di partenza imprescindibile per l’incessante rinnovamento della Chiesa e della società.
    Mons. Naro, che volle comporre una originale litania di santi, di beati, di venerabili, di servi di Dio (ben 35) che hanno avuto rapporti con la Chiesa di Monreale, considerava la santità come il capitolo più bello della storia della Chiesa, la sua chiave di lettura e la cifra con la quale interpretare il suo mistero, come anche la vita, in essa, di ogni credente. Per Mons. Naro la santità è la bellezza della Chiesa.
    “E’ una bellezza – egli scriveva – che si coglie o, più precisamente, si vive durante la celebrazione liturgica, cioè nel momento più significativo della comunione tra la Chiesa pellegrinante nella storia e la Chiesa celeste che con i suoi santi e con gli angeli, assieme al Cristo risorto, canta la lode perenne al Padre”.

    4. Questo grande amore al Cristo Risorto e ai santi che gli fanno corona, musivamente raffigurati sull’abside e sulle pareti del Duomo Monrealese, appare come il segreto interiore della generosa, intelligente, lungimirante, instancabile e multiforme dedizione pastorale di Mons. Naro, fondata sul primato della grazia, sorgente di santificazione e forza propulsiva della missione. Da qui la sua insistenza sulla necessità della preghiera, “come primo e comune modo di lavorare nella vigna del Signore”.
    Partendo dalla premessa che per amare bisogna ammirare, egli domandava nella citata lettera pastorale: “Che cosa ammiriamo nella nostra Chiesa tanto da non poterla non amare?” E rispondeva: “Essenzialmente la presenza salvatrice del Signore risorto”. E precisava con forza: “Non altro. Non l’efficienza formativa delle sue strutture pastorali. Non l’efficacia assistenziale del suo impegno caritativo. Non la sua capacità di incidenza significativa nel mondo circostante. Non la diffusa consapevolezza dei suoi membri circa un loro compito storico. Non la loro esemplarità morale. Non tutto questo e altro ancora che, magari, può apparire grande e buono sul piano della visibilità sociale e dell’importanza storica. Ad attrarre il nostro sguardo di ammirato stupore sulla Chiesa è propriamente la Grazia del Signore Gesù che redime l’uomo dal suo peccato e lo rinnova facendolo capace di dialogo con Dio e di fraternità con gli altri uomini”.

    5. In queste affermazioni mi pare delineato il vero volto di Mons. Naro.
    È il volto di un uomo, di un cristiano, nato 55 anni fa a S. Cataldo da una famiglia esemplare e numerosa, qui presente, e alla quale siamo vicini con affetto a cominciare dalla mamma, il volto di un giovane che risponde con gioia alla chiamata del Signore al sacerdozio ministeriale e vi si prepara compiendo brillantemente gli studi umanistici nel Seminario di Caltanissetta e quelli accademici nella Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale.
    È il volto di un sacerdote maturo al quale, conseguita la laurea in Storia della Chiesa presso l’Università Gregoriana, vengono affidati molteplici uffici presbiterali e compiti pastorali, educativi, culturali, tra i quali preminente quello di Professore, Vice Preside e Preside della nostra Facoltà Teologica di Sicilia: compiti che egli ha svolto con alto profilo professionale, con generosa carità pastorale e con sincera umiltà evangelica, schiva da palcoscenici e dai riflettori.
    Lo ha svolto soprattutto con grande amore alla Chiesa, alla sua Chiesa nissena e alle Chiese di Sicilia e d’Italia, se, ancora sacerdote, dalla Conferenza Episcopale Italiana, qui rappresentata dal Presidente, il Card. Camillo Ruini, che saluto e ringrazio di cuore insieme ai suoi collaboratori, fu chiamato a dare il suo contributo al Servizio del “Progetto culturale”, all’impegno promozionale di “Avvenire” e al Comitato scientifico delle Settimane sociali, per poi essere eletto, da Vescovo, Presidente della Commissione episcopale per la Cultura e Vice presidente del Comitato preparatorio del IV Convegno ecclesiale nazionale, che si svolgerà a Verona dal 16 al 20 di questo mese e al quale ha dato sino a qualche giorno fa la sua preziosa collaborazione, conclusasi col dono della vita.

    6. È il volto di Mons. Naro, soprattutto come Vescovo, che sin dal primo saluto alla Chiesa Monrealese, dicendosi “piuttosto confuso e anche un po’ spaventato dalla responsabilità affidatagli”, attestava la certezza che “il Signore col suo Spirito guida e assiste la Chiesa”, e chiedeva a lui di “corrispondere alla grazia del Sacramento in una visione di fede sempre più pura, in una volontà di dedizione senza riserve, in una libertà interiore che mi apra ad ogni persona e a ogni problema, in un’attenzione che non escluda nessuno e prediliga quanti ne hanno più bisogno, quanti da Lui sono prediletti: malati e poveri”. E così è stato.
    Sì! La sua visione di fede, alla luce del suo motto episcopale “Miserationum Domini recordabor”, è diventata sempre più luminosa, come risulta dalle sue lettere pastorali, dai suoi scritti, dalla sua azione apostolica, tesa soprattutto ad aiutare l’uomo di oggi, disorientato dal secolarismo, dall’agnosticismo, dal relativismo, a ricercare e ritrovare Dio, proponendo lucidamente le vie idonee a far dialogare fede e cultura, nel rispetto della verità e con la forza del dialogo aperto a tutti, ma senza sconti e senza cedimenti, favorito in questo dalla sua vasta e profonda cultura e da una eccezionale capacità di leggere i segni dei tempi alla luce del Vangelo e della sana ragione.

    7. Tale capacità lo ha aiutato moltissimo ad aprirsi a ogni persona con discrezione e con rispetto, con l’amicizia vera, disinteressata e senza ostentazioni: sia ai responsabili delle istituzioni civili, culturali, politiche e sociali, che lo hanno altamente stimato e apprezzato, sia ai ceti popolari, che soprattutto durante la Visita pastorale, condotta nelle singole parrocchie senza soste e senza risparmiarsi, in una molteplicità di incontri e di rapporti, hanno potuto conoscerlo più da vicino e amarlo di più.
    Ma lo ha aiutato anche ad affrontare i diversi problemi pastorali con saggezza, con discernimento, con fermezza, superando difficoltà, incomprensioni, che tuttavia non lo hanno mai scoraggiato, consapevole, com’era, che la croce è il prezzo della carità pastorale e questa si estende a tutti, a cominciare dai sacerdoti, senza distinzioni.
    Preoccupato di promuovere anzitutto la comunione ecclesiale della comunità diocesana per la credibilità e l’efficacia della missione, ha proceduto al riordino della Curia, dei Vicariati foranei e, soprattutto, delle parrocchie, con l’unico intento di far riscoprire il loro volto missionario attraverso una più diffusa ministerialità per una pastorale integrata e integrale.
    A tal fine ha istituito strutture di formazione per i candidati al Diaconato permanente (ne ha ordinati tre), la Scuola per i ministeri, il Centro culturale Intreccialagli, e ha promosso le Settimane bibliche, i convegni per gli insegnati di religione, i progetti di ricerca pastorale sul territorio.

    8. Ha tanto lavorato, gioito e sofferto, Mons. Naro, nella sua vita e nel suo ministero pastorale. La sua morte improvvisa e prematura è una gravissima perdita per la Chiesa di Monreale, per le Chiese di Sicilia e d’Italia, per il mondo della cultura, per tutta la società siciliana, della quale, come pochi, conosceva le luci e le ombre e alla quale offriva il prezioso apporto delle sue acute intuizioni per promuoverne le luci e per debellarne le ombre, soprattutto quelle più oscure della mafia, esortando al rispetto della legalità e all’attuazione della giustizia sociale.
    Nell’ottica del mistero pasquale che stiamo celebrando, anche la sua morte va considerata come l’ultimo dono del suo servizio pastorale, potremmo dire il più bel dono: tanto è ricco di significati, di stimoli, di messaggi, nel nostro cammino verso il banchetto eterno della gloria futura, che è stato prefigurato dal Profeta Isaia nella prima lettura e che nella celebrazione eucaristica è manifestato, preannunziato e, in certo qual modo, anticipato.
    Per questo abbiamo cantato con fede nel salmo responsoriale: “Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei giusti”.
    Oggi è la vera pasqua di Mons. Naro, il passaggio da questo mondo alla casa del Padre, dove c’è posto per tutti e tutti ci attende con Cristo Risorto, con Maria, la nostra Odigitria, e con i santi siciliani.
    Ora che egli si riposa dalle sue fatiche, seguito dalle opere che ha compiuto, come ci ha ricordato S. Giovanni nel brano dell’Apocalisse, diciamo anche noi per lui: “Beati i morti che muoiono nel Signore”, ringraziando Dio per avercelo dato e ringraziando anche lui per quanto ci ha dato con la sua vita e col suo ministero.

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    02/10/2006 Card. Salvatore De Giorgi

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    http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/bd_edit_doc_txt.edit_documento_dioc?p_id=911217

  10. Michele
    17 ottobre 2007 alle 7:51

    Bella lettera quella del Vescovo

    di Margherita Settimo

    La leggi dapprima con curiosità, poi con qualche amara risata per uno o due battute che il vescovo riporta qua e là e poi ti prende per la profondità di una visione che supera abbondantemente la tua concezione di parrocchia, di quella dove vai per la messa della domenica, il catechismo dei bambini, i matrimoni e i funerali, e per la riunione dell’Azione Cattolica, il sabato pomeriggio, fino ad una certa età, naturalmente. La prendi, la porti in parrocchia, nella tua o magari in quella vicina dove tu lavori e, come fai con una foto, la confronti con la realtà e capisci che non ci siamo, guardi e non vi riconosci neanche il tuo parroco: allora comprendi che la lettera è l’immagine di ciò che dovremmo essere e non di ciò che siamo, ma soprattutto delinea una Chiesa locale adulta, capace di dialogare con il mondo circostante, alla pari, senza infingimenti o puerilità, senza “volemose bene” o “tiriamo a campà”. Una Chiesa locale anzitutto credente e quindi capace di un comportamento etico rigoroso che non lascia scampo a mediazioni sinonimi di compromessi con il territorio circostante. Si, perché per raggiungere un mediazione si può scendere come salire. Salire a mediazione con il territorio e le sue esigenze comporta una rimodulazione della presenza delle parrocchie tenendo conto del numero di sacerdoti, di una omogeneità culturale storica che non si esprime, come molti credono, con la concorrenza fra le feste di quartiere e con una certa antipatia fra una parrocchia e l’altra, e pertanto è giusto pensarsi figli di un unico patrimonio valoriale e culturale e religioso ed economico da apprezzare e conoscere piuttosto che separare le strade in parrocchie diverse dicendo che a destra della fontana è parrocchia S. Giuseppe e a sinistra della fontana è parrocchia di S. Francesco. La mediazione è anche punto di arrivo in discesa, talvolta: capita quando in parrocchia si fanno mediazioni fra il Vescovo che crede nel Consiglio Pastorale, anche parrocchiale, e il parroco che convoca sì il Consiglio ma dice chiaramente ai laici lì malcapitati che lui non crede nel Consiglio, in quanto questo ha solo potere consultivo e alla fine non si illudano, perché l’ultima parola è sempre la sua. Ecco, la lettera vola alto e raggiunge il cuore della Chiesa locale astraendone tutta la bellezza del suo esistere lì, da un certo numero di anni o di secoli, al servizio di generazioni e generazioni di persone che ad essa hanno creduto, di essa si sono fidati, da essa sono stati plasmati nella fede. Vola alto e raggiunge la cultura che anima un territorio, che è fatta di ciò che siamo come paese e come territorio, della storia che abbiamo avuto e dell’unica amministrazione comunale dalla quale siamo bene o male governati, delle nostre statue che raffigurano una fede fatta di quotidiana confidenza con l’Alto e delle nostre processioni alle quali – quando non sono di quartiere – partecipa tutto il paese, senza distinzione di parrocchie. E ad un certo punto lo scritto comincia a sorprenderci, a parlarci di pastorale integrata, a delineare come una matita sottile e puntuale un modello di parrocchia che riacquista il suo ruolo di interlocutore del territorio, ma un interlocutore adulto, che a domanda risponde, a provocazione confuta, a stimoli interviene, nel silenzio fa sentire la sua voce, nel frastuono si distingue per l’innovatività dei contenuti, per la profondità della proposta. Ma per fare questo la Parrocchia deve essere anzitutto consapevole di se stessa, consapevole di avere un patrimonio di Verità e di verità che anzitutto deve tradursi in proposta religiosa intrisa di cultura e non solo di sentimento, consapevole di essere interlocutore adulto. Mi spiego meglio: una parrocchia consapevole è anzitutto colta, profonda conoscitrice delle correnti culturali che animano il mondo contemporaneo, anche quelle sotterranee e magari minute di un piccolo paese dell’entroterra. Perché solo se conosco la cultura e i riferimenti culturali dell’uomo che ho di fronte posso interagire con lui: quindi bando alle omelie raffazzonate e intrise di pietismo o di inutili tuoni in merito di morale, bando alle muffolettiate vendute per incontri di socializzazione, al “la politica non entra in chiesa”,- salvo poi fare entrare qualche volta i partiti – perché se in chiesa entra l’uomo entra anche la politica e lo pensava Aristotele prima ancora di Cristo, entra la totalità dell’uomo. Bando al “ non mi interessa la riforma scolastica, qui parliamo di catechesi,” perché la Chiesa – se adulta e preparata – ha da dire qualcosa pure sulla riforma scolastica. E sull’educazione, sulla fecondazione assistita, sull’economia, sul lavoro e sulla disoccupazione, sull’etica, questa ( spesso) sconosciuta.
    La Parrocchia è la voce della Chiesa in un mondo sempre più secolarizzato, è il volto concreto, tangibile della Chiesa che guarda l’uomo negli occhi e risponde alle sue domande con una risposta preparata, formata, compiuta, dinamica, adulta. Ma risponde. Si impegna nella risposta chiamando a discutere nelle sue sale della comunità (!) persone che sappiano far incontrare la fede con l’intelligenza, la cultura con la Verità, l’uomo con il Cristo della storia e del presente.Si impegna coinvolgendo i laici in una preparazione culturale e spirituale che consenta loro di potere essere nei luoghi della loro storia personale portavoce di una parrocchia dove vale la pena vivere. E non mi si obietti che non abbiamo laici disponibili ad un progetto culturale: forse non diamo pane per i loro denti, come si suol dire, e li nutriamo a pastina. Una parrocchia che si impegna a lavorare con le altre realtà del territorio ( associazioni cattoliche o meno, amministrazioni comunali di destra o sinistra, giovani del centro sociale, quelli con l’orecchino e i piercing anche nell’ombelico, insegnanti di scuola stanchi per uno stipendio troppo scarso) per migliorare non solo la qualità di vita in paradiso ma anche quella dell’oggi che compone la storia di questo paese, di questo territorio.
    Integrale, che si integra, si impasta, si lascia coinvolgere, sconvolgere, modellare, che modella, interpella, insiste, chiama, condivide, cresce, migliora, ci prova con gli strumenti e i mezzi e i metodi dell’uomo di oggi, senza diventare altro da sé, divenendo ciò che deve essere, semplicemente. Bella nota, quella del vescovo.
    Finisci di leggerla e ti senti un groppo allo stomaco: ti viene voglia di metterla da parte nella cartella delle cose che riguardano Monreale ma poi capisci che così la tradisci e tradisci chi l’ha scritta. E allora la tieni in borsa, sulla scrivania, sul banco, fra gli attrezzi da lavoro e capisci che l’unico uso che puoi farne è uguale all’uso che un architetto fa di una pianta in un cantiere: la tiene fra le mani sempre, la guarda costantemente e alla luce di quelle linee e quei colori costruisce la parrocchia, nel cantiere sempre aperto che è la storia della Chiesa locale. Bella Lettera, quella del vescovo.

    Tratto da “Giorno Otto” periodico della Arcidiocesi di Monreale.Anno IV,Ottobre-Novembre 2004

    DIAMO UN FUTURO ALLE NOSTRE PARROCCHIE

    Una riflessione critica
    di Michele Vilardo

    A leggere gli articoli di certi quotidiani,ad opera di certi sedicenti “Sacerdoti del laicismo”,si coglie un concetto di fondo:il Cristianesimo è morto e tutto ciò che è suo retaggio esiste grazie al sostegno dello Stato alla Chiesa cattolica.
    Altri autori,laici,ma non laicisti,sostengono,invece,con onestà intellettuale,la tesi secondo cui il Cattolicesimo è diventato culturalmente minoranza anche se rimane alta la percentuale degli italiani che continuano a definirsi cattolici.
    Entranbe le ipotesi non possono non spingere la comunità cattolica ad una seria riflessione sulla sua identità vera e sulla sua effettiva presenza sul territorio.In questo contesto si inserisce,a pieno
    titolo,una riflessione critica sulla parrocchia e sul progetto culturale della Chiesa italiana.
    La parrocchia,tradizionalmente intesa,vive oggi una crisi complessa dovuta a fattori interni ed esterni ad essa che si influenzano a vicenda.
    All’interno della vita della Chiesa si è sviluppato un percorso mirante a superare pratiche pastorali e figure istituzionali fino a qualche tempo fa funzionanti e funzionali.
    Una parrocchia vista,dallo stesso corpo ecclesiale,incapace di assolvere alle dimensioni e ai compiti relativi al suo status e di restare al passo con i tempi all’interno di una società e di una cultura in continue evoluzione.
    Il secondo fattore di crisi va ricercato nel rapido e irreversibile cambiamento culturale della società odierna. Una crisi,quella della parrocchia,che si può sintetizzare in una crisi d’identità,di rappresentanza e di significato.
    La prima deriva da una struttura fortemente centrata sulla figura e sulla persona del parroco cosicché lo schema feudale parroco-fedeli è risultato,alla fine,oppressivo ed incapace di riconoscere e di dare valore al altre figure e ruoli di responsabilità.
    Una crisi d’identità derivante,anche, da un rapporto della parrocchia troppo ossequioso nei confronti della società civile e del potere politico di turno e perciò privo di contestazione profetica.
    La seconda,derivante dal fatto che una chiesa che vive al suo interno un indebolimento istituzionale (caduta della pratica religiosa,frattura tra fede e vita,crisi quantitativa e qualitativa del modello sacerdotale,un laicato,spesso,incapace di una intelligenza della fede) non può più essere rappresentativa.
    Così il cattolicesimo è chiamato a confrontarsi con le conseguenze generate dal forte indebolimento della sua presenza e della sua visibilità nel territorio,senza più gli strumenti adeguati per sostenere la sopravvivenza di quel reticolo di parrocchie a cui si era appoggiata, per secoli,la sua identità sociale.
    Ciò dice il venir meno di uno dei pilastri dell’identità cattolica:la presenza reale sul territorio
    .La parrocchia ,infatti ,riusciva a rappresentare,in un determinato territorio,la presenza attiva di un’autorità in grado di garantire un ordine sociale supportato da una scala di valori mutuati dalla fede cattolica.
    Un universo religioso pronto a rispondere ai bisogni individuali e comunitari delle nostre popolazioni. L’istituzione ecclesiale è stata così chiamata a riflettere sul fatto che il suo legame con il territorio non può essere dato per scontato ma deve essere ripensato,ogni volta,come un compito da svolgere.
    La parrocchia,finito il regime di cristianità(ma è davvero finito nella testa di tanti?)è chiamata a scoprire la possibilità di potersi pensare come una istituzione religiosa che non ha più alle spalle un’autorità,quella dello stato,in grado di garantire, sempre e comunque,circa la bontà e la qualità della sua struttura sociale e del suo operato pastorale.
    La parrocchia è presente con una sua identità ma in un territorio che pensa e si coglie sempre più in modo autonomo e come spazio sociale. La crisi di rappresentanza è frutto di una più ampia crisi di significato derivante dal fatto che le istituzioni parrocchiali non si vedono più riconosciute quelle funzioni e quelle prerogativa che erano alla base del loro radicamento territoriale.
    Il mito della civiltà parrocchiale è entrato in crisi perché la gente ha dimostrato di non averne più bisogno allo stesso modo di prima.
    Infatti molti credenti hanno elaborato “una religione alla carta” seguendo percorsi autonomi per costruire la propria relazione personale con Dio.
    Da fedeli a pellegrini,cioè dalla regolarità della pratica religiosa si preferisce la carica emotiva di eventi vissuti in modo eccezionale.
    Da praticanti regolari a ospiti,da parrocchiani a pendolari. Dinnanzi a tutto ciò,occorre un recupero dell’identità cattolica,ossia il trasmettere anche una “intelligenza della fede”unitamente ad una fede celebrata e vissuta.
    Manca,ormai da tempo,un “intellectus fidei” che spinga la comunità credente a dare conto e ragione della fede che professa e ad affermare e salvaguardare oltre che l’identità anche l’identificazione. Una fede vissuta ma non pensata è paragonabile ad un corpo privo di sistema osseo.
    L’assunzione di una identità confessionale più marcata e decisa,che nulla ha a che fare con percorsi di integralismo o fondamentalismo religioso,che dica di no ad ogni forma di sincretismo religioso mirante ad annullare tutte le specifiche identità. Il recupero e l’affermazione dell’identità cattolica serve a scongiurare la frattura tra la fede e la vita ,tra la celebrazione liturgica e il percorso etico-morale quotidiano,tra il dirsi cattolici ma il fare scelte etiche,morali e politiche anti-cattoliche.
    Infine, è necessario anche un nuovo slancio missionario che parta dalla consapevolezza di essere minoranza e che “annunci nuovamente il Vangelo,ne sostenga la trasmissione della fede di generazione in generazione”ponendosi al servizio del territorio in cui si è presenti.

    Tratto da “Giorno Otto” periodico della Arcidiocesi di Monreale.Anno IV,Ottobre-Novembre 2004

  11. Michele
    17 ottobre 2007 alle 15:27

    PARROCCHIA,LA FEDE CON IL VOLTO DELLA GENTE

    Intervista a Mons.Cataldo Naro di Mimmo Muolo su “Avvenire” del 19 Maggio 2004

    I Vescovi ribadiscono la loro fiducia nella parrocchia. Una fiducia basata sulla storia.E Mons.Cataldo Naro spiega:”Nel nostro paese la parrocchia è stata capace di profonde trasformazioni lungo tutto il Novecento. Sempre al fine di rispondere alle mutate esigenze pastorali. Non si capisce perché non debba poterlo fare anche oggi”. L’arcivescovo di Monreale ha presentato ieri mattina in assemblea (generale della CEI) la Nota pastorale intitolata il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia,che nel corso dei lavori verrà sottoposta alla valutazione dei vescovi. Del documento-che raccoglie tutto il lavoro di preparazione compiuto nell’ultimo anno(e in particolare durante l’assemblea straordinaria del novembre scorso ad Assisi)-parla in termini positivi. In particolare, afferma,”la convinzione che pervade le pagine della Nota,e che sottostà al suo impianto,è il fatto che della parrocchia la Chiesa italiana non può farne a meno”.

    Mons.Naro,nel testo si parla di una “via italiana della parrocchia”. Che significa questa espressione?

    “Vuol dire che la parrocchia costituisce una peculiarità importante del nostro cattolicesimo e rappresenta tutt’oggi la via ordinaria,seppure non esclusiva, della pastorale della Chiesa italiana. La Nota su questo punto è chiarissima:la parrocchia è la via ordinaria,perché radica la chiesa in un territorio e perché le permette di avere un volto popolare. Confermando la scelta della parrocchia,i vescovi vogliono continuare a conservare e coltivare queste caratteristiche della parrocchia italiana”.

    Da molte parti,però,si sente dire che la parrocchia attuale è inadeguata rispetto alle esigenze della “nuova evangelizzazione”

    “E,infatti,la Nota è incentrata su un’idea di fondo:serve una conversione missionaria delle nostre parrocchie. Dobbiamo trovare il modo di portare l’annuncio cristiano a persone che hanno smarrito la loro memoria cristiana o il contatto con la comunità ecclesiale. Perciò nel documento si parla di slancio missionario. In altri termini la Chiesa italiana avverte che proprio oggi le si offrono vie nuove per l’annuncio del Vangelo e vuole esplorare con fiducia,cercando di immettere il fermento del Vangelo nella cultura diffusa del nostro tempo. Proprio per il suo radicamento sul territorio e la sua connotazione popolare,la parrocchia può farsi strumento o via della nuova evangelizzazine in maniera più efficace e più capillare di altre vie che pure la Chiesa sperimenta”.

    Che cosa consiglia,dunque,la Nota dal punto di vista operativo?

    “I consigli che la Nota suggerisce sono molti. Ma mi sembra che possano essere raccolti nei tre principali tratti della parrocchia che il documento indica come linee della sua conversione missionaria:puntare sull’iniziazione cristiana,coinvolgendo anche le famiglie; mettersi al servizio della fede delle persone; curare una pastorale integrata,rifuggendo dalla tentazione dell’autosufficienza”.

    L’iniziazione cristiana è stata sempre un punto di forza dell’attività parrocchiale. Che cosa c’è di nuovo, dunque?

    “Si,trasmettere la fede alle nuove generazioni è uno dei compiti principali delle parrocchie. Ma oggi occorre sottolineare l’importanza del coinvolgimento della famiglia nella trasmissione della fede,specie in un momento in cui le famiglie sperimentano una loro grande debolezza educativa. Si apre qui un compito missionario assai impegnativo per la parrocchia. Non ci si può nascondere che,a questo proposito,il cammino da compiere per un ripensamento della pastorale è ancora lungo”.

    Riguardo alla seconda priorità da Lei elencata,che cosa significa mettersi a servizio della fede delle persone?

    “Significa concentrarsi sull’essenziale del compito della parrocchia. Far scoprire a ognuno la propria Vocazione cristiana,aiutare a incontrare personalmente il Signore,a vivere nella sua amicizia e a fare del Vangelo la propria regola di vita,il criterio di valutazione di ogni cosa .Insomma,come dice il testo,la parrocchia missionaria,per non far scadere in sterile retorica la propria missionarietà,deve servire la vita concreta delle persone,proprio sul terreno del loro rapporto con il Signore”.

    Viene spontaneo chiedersi:ma la parrocchia oggi,ha le forze per fare tutto questo?

    “Qui sta il punto forse più delicato. Dicevo prima che la parrocchia è via ordinaria ma non deve avere tentazioni di autosufficienza. In sostanza,come dice la Nota,essa da sola non basta,ci vogliono,proprio per l’esercizio stesso del suo compito,competenze che possono essere assicurate solo dall’integrazione nella sua vita e nella sua azione pastorale di iniziative e competenze a livello diocesano o almeno zonale,e di dedizioni più specifiche come quelle associative”.

    Parliamo,dunque,di pastorale integrata. Ci può fare qualche esempio?

    “Penso alla cosiddetta pastorale d’ambiente. Se c’è bisogno di energie missionarie per evangelizzare gli ambienti di lavoro e c’è un’associazione o un movimento che si occupa di questo settore della pastorale,perché non attingere a queste risorse?Lo stesso Progetto culturale va in tal senso e suggerisce alla parrocchia la strada della ricerca di utili integrazioni. Insomma, e cito ancora il testo della Nota,la proposta di una pastorale integrata mette in luce che la parrocchia non dovrà più concepirsi a porte sbarrate,ma all’interno di relazioni stabili”.

    A che livello vanno realizzati i cambiamenti?

    “Le parrocchie fanno parte di una diocesi Spetta dunque a ciascun vescovo,con l’aiuto degli organismi di partecipazione pastorale,mettere in atto il discernimento comunitario per far sì che ci si incammini verso una conversione missionaria”.

    Tratto da:Bollettino Ecclesiastico dell’Arcidiocesi di Monreale,anno LXXXIV-Gennaio-Giugno 2004.

  12. 17 ottobre 2007 alle 18:05

    Per Marco.

    Ancora sull’ipotesi che le recenti indicazioni pastorali dell’episcopato italiano sulla parrocchia siano sotto l’influsso del pensiero di C. Naro. Sulla scorta di questi ultimi documenti, prodotti da te e Michele, l’ipotesi appare niente affatto peregrina.

    Giampiero.

  13. 17 ottobre 2007 alle 20:53

    Per Michele.

    Ritengo utile ritornare sulla domanda da te posta nel commento del 13 ottobre https://terradinessuno.wordpress.com/2007/09/29/il-silenzio-e-la-resa-in-memoria-di-cataldo-naro/#comment-1038

    «Qual’è la differenza tra un cammino di fede che comprenda anche una autocoscienza critica del camminare e il bigottismo, più o meno dilagante?»

    Da un punto di vista fenomenologico, la fede cristiana è, ad un tempo, evento linguistico (kerygma, teologia, catechesi, liturgia) e pratica sociale. I due aspetti sono strettamente connessi, essendo il secondo la condizione di controllabilità dell’altro. Se vuoi, questi due aspetti corrispondono, nei termini che Naro predilige, a “identità” e “identificazione”. La dialettica tra questi due aspetti, d’altronde, non è ignota neppure alla teologia neotestamentaria, potendosi citare a sostegno, ad esempio, Gc 2,18.
    In quanto evento linguistico, la fede può essere definita una teoria di senso come un’altra, cioè una risposta alla domanda di senso che sale dall’esistenza umana nella sua totalità, senza lasciare residui di non significanza. L’assetto epistemologico dei discorsi di questo tipo fa sì che la loro controllabilità avvenga nel reciproco confronto. Esiste, in altre parole, un regime concorrenziale in cui i discorsi globali di senso si sottopongono a controllo misurandosi vicendevolmente sulle rispettive capacità di tradursi in prassi di umanizzazione.
    Teorie di senso e corrispondenti ortoprassi, stanno in un rapporto di circolarità che funziona anche da criterio regolativo del loro sviluppo interno. Il sistema linguistico guida e illumina di senso la prassi, questa, da parte sua, “giudica” il discorso, discrimina l’autentico dal non autentico, purifica la dottrina.
    L’asserita efficacia dell’evento Cristo in ordine alla salvezza globale dell’umanità deve passare attraverso la sfida rappresentata dalle alienazioni storiche e culturalmente contingenti e dar loro una risposta di liberazione, se non vuol risultare globalmente falsificata e rassegnarsi a non avere un futuro.
    Questo carattere epocale riveste, nel qui ed ora delle nostre Chiese siciliane (ma, in proiezione, anche di quella italiana ed europea) la presenza del fenomeno mafioso in una cultura cristiana.
    Questo, credo, volesse anche dire Aldo Naro quando metteva in relazione di causalità storica, cioè di senso, la cristiana novità linguistica del discorso di Wojtyla sulla mafia e la novità di ortoprassi cristiana nei confronti della mafia, rappresentata dal martirio di Puglisi.

    Giampiero.

  14. Marco D.
    17 ottobre 2007 alle 23:32

    Caro Giampiero, sono pienamente d’accordo con il tuo ultimo commento, anche se ho perso un po più di tempo per decodificare il tuo linguaggio tecnico, eh eh eh eh.
    Marco

  15. Michele
    19 ottobre 2007 alle 16:46

    Presso il Museo Diocesano del Seminario di Caltanissetta
    (viale Regina Margherita, 29)
    è in corso la mostra gratuita dedicata dal Centro Studi Cammarata di San Cataldo
    alla memoria dell’arcivescovo mons. Cataldo Naro, intitolata
    La speranza è paziente
    con bronzi e terrecotte della scultrice palermitana Antonella Pomara
    e con tele dei pittori della Scuola di Brera.
    La mostra rimarrà aperta al pubblico fino a domenica 28 ottobre;
    questi gli orari: dal lunedì al venerdì, ore 9.00-12.00 e 16.00-19.00;
    sabato e domenica ore 9.00-12.00; è possibile acquistare le sculture e le tele.

  16. MARCO D.
    20 ottobre 2007 alle 12:17

    Con l’ondata di violenza dei primi anni 80 si è parlato di “scoperta della mafia” – tale scoperta colpisce anche la Chiesa cattolica. Il cardinale di Palermo Pappalardo diventa famoso come “cardinale antimafia” , condannando atteggiamenti di tipo omertoso e sottolineando l’importanza dell’educazione alla legalità, ma senza individuare responsabilità politiche e senza parlare del rapporto tra mafia e politica. Espressioni di questo tipo hanno la loro importanza, ma, come spesso anche nel caso di mobilitazioni laiche, restano ancorate ad un’ottica emergenziale ed emozionale.

  17. Michele
    20 ottobre 2007 alle 12:45

    COMMIATO DI DON MASSIMO NARO,FRATELLO DI MONS. CATALDO NARO,PRONUNCIATO ALLA FINE DELLA MESSA ESEQUIALE NELLA CATTEDRALE DI MONREALE IN DATA 2 OTTOBRE 2006

    Aldo, fratello e maestro.
    Sì: anche maestro. Vero fratello, vero fratello maggiore. E, perciò, capace di consigliare, di comunicare esperienze, di indicare la strada, di additare le mete, di insegnare come discernere la volontà di Dio. Hai interpretato e vissuto il tuo essere fratello maggiore anche come espressione di un magistero così inteso: con sicurezza ma senza sicumera, senza costrizione, senza voler vincere, ma piuttosto per convincere. E, infine, per aiutare i fratelli minori a fare il passaggio più importante: dalla convinzione alla consapevolezza, da ciò che possiamo pensare e decidere rimanendo però pur sempre esposti al rischio del tornacontismo e dell’arbitrio, a ciò che dobbiamo sapere e accettare perché è pensato e deciso dal Signore.
    Cosa, dunque, hai insegnato a noi tuoi fratelli più piccoli, ad Antonio, a Maria Rosaria, ad Angelo, ad Eugenio, a me e a tutti gli altri innumerevoli tuoi fratelli e discepoli, ad di là del sangue che scorre nelle vene e al di là di ogni dato anagrafico? E cosa hai insegnato persino a nostro padre, quando era ancora in mezzo noi? E alla nostra mamma, anche lei, in questo senso, figlia del suo figlio?
    Tante cose ci hai insegnate: troppe, così numerose che la memoria diventa grondante come una spugna inzuppata. Io sento ora e qui di ricordare, di far passare e ripassare nel cuore di chi ha cuore, almeno il tuo insegnamento più bello e più importante: ci hai insegnato il valore e la bellezza dell’amore.
    Se rileggo i tuoi scritti pastorali, quelli lunghi e quelli brevi, quelli redatti con pazienza e travaglio ─ la stessa pazienza e lo stesso travaglio che ci vogliono per concepire e dare alla luce ─, ma anche quelli approntati in estemporanea, velocemente e occasionalmente, come anche i tanti bigliettini che lasciavi sparsi per casa, su cui annotavi i tuoi appunti, sempre mi vedo comparire davanti agli occhi la tua esortazione principale: amiamo. Amiamo il nostro ministero, amiamo il nostro lavoro, amiamo ciò per cui il Signore ci chiede di spenderci, amiamo la nostra gente, amiamo il seminario, amiamo la nostra Chiesa.
    Sì: ci hai insegnato soprattutto l’amore da nutrire per la Chiesa; l’amore da scambiarci reciprocamente, se è vero che noi siamo la Chiesa; l’amore da cui lasciarci investire da Dio, se è vero che noi siamo la Chiesa di Dio.
    Ma la lezione dell’amore è difficile. È difficile da insegnare, perché l’amore vero non è mellifluo, non è retorico, non è a buon mercato, rimane inevidente, mai scontato, sempre a caro prezzo, per risultare efficace deve essere intelligente, deve cioè vedere e leggere dal di dentro, andare oltre le apparenze, aggirare le facciate, per quanto penoso e doloroso sia questo accorgersi di ciò che dietro vi si annida e vi si nasconde. E, così, l’amore vero rimane un’impresa ardua. Tu lo hai saputo bene: ma hai preferito non sottrarti all’immane fatica di insegnare questo amore vero, serio, difficile, faticoso.
    L’amore, poi, è difficile anche da imparare: perché esso è esigente, perché è urgente, spinge, strattona, è un pungolo insistente: l’indifferenza, la pavidità, le lentezze nel comprendere e nell’agire non gli sono congeniali. E rischia così, l’amore vero, di rimanere un’occasione perduta.
    Per evitare questo pericolo, mortale per tutti noi, tu ci hai voluto insegnare l’amore alla Chiesa mettendoti in mezzo a noi, hai voluto apprenderlo insieme a noi, alla scuola dei santi di Dio, di cui sempre sei stato amico. E perciò non hai mai detto con presunzione tanto ingenua quanto stolta “io amo la Chiesa”, e non hai scaricato il fardello sugli altri, rifuggendo di dire soltanto “amate la Chiesa”. Hai detto piuttosto, in pubblico e in privato, hai scritto, hai pregato: “amiamo la Chiesa”.

    Sì, Aldo, questo sempre ci hai detto. In ogni maniera, con ogni possibile e immaginabile linguaggio, con il tuo solito stile, che faceva diventare un gesto comune qualcosa di unico e di speciale.
    Regalare un libro, per esempio.
    Aldo tu mi hai insegnato non solo a scegliere i libri, a leggerli, a catalogarli. E neppure mi hai insegnato soltanto e semplicemente a farli i libri, a scriverli, a curarne la pubblicazione, a vederli nascere dal computer alla tipografia. Mi hai insegnato anche, partecipandomi l’arte del libro, ad amare. Ogni libro che spedivi a chiunque, ad amici fraterni come pure a semplici conoscenti, era accompagnato da una tua parola, da un tuo cordiale saluto vergato di tuo pugno, a volte anche solo dall’indirizzo sulla busta, che volevi sempre e testardamente scrivere a mano, per far capire al destinatario che lo avevi presente nel cuore e non solo nell’indirizzario.
    Aver appreso da te l’arte del libro significa per me, davvero, aver appreso l’arte dell’amicizia, lo stile dell’amore. Ogni libro che mi chiedevi di aiutarti a fare, al Centro Studi Cammarata e al Centro Studi Intreccialagli, come pure in Facoltà Teologica a Palermo, era come una rete di contatti, di relazioni, di confronti, di collaborazioni: era come darsi appuntamento con tanti amici, con quelli che avrebbero scritto il libro, con quelli che lo avrebbero edito, con quelli che lo avrebbero stampato, con quelli che lo avrebbero letto e presentato, con quelli che lo avrebbero ricevuto in dono da te. E sempre da tutti, se essi avevano il cuore per vedere e ascoltare questo tuo amore, mi giungeva puntuale la grata conferma che il tuo messaggio d’amicizia era stato recepito.

    “Dillo tu alla mamma”: così sempre mi dicevi quando c’era qualcosa d’importante, ma anche di doloroso, da doverle comunicare. Così è stato quando il Signore ti ha fatto vescovo. E così è stato quando ti sei sentito male. E così ho fatto, infine, venerdì pomeriggio. Così voglio fare di nuovo stasera, a nome tuo. Cara mamma, non lasciarti frastornare da chi dice che questo era il disegno di Dio, così era destino che avvenisse, che i misteri di Dio sono insondabili. Il mistero di Dio è sì insondabile, ma perché è mistero di infinita misericordia, di amore senza fondo e senza fine. La volontà di Dio non è arcana. Semmai è inevidente: bisogna pregarci sopra per riceverne il senso. Dio non si allea mai con la morte. Dio non se ne serve mai. Dio lotta contro la morte. E quando la morte si è scagliata persino contro di Lui, in Cristo crocifisso, Dio si è ribellato alla morte: e l’ha vinta. Con la risurrezione. Il frutto non è maturo perché qualcuno lo percuote e lo fa cadere a terra. Diventa maturo quando il coltivatore amoroso e vigile si china e lo recupera, lo prende e lo ripone e lo conserva nel suo canestro.
    Anche la morte di Aldo non è gradita a Dio, e Dio ne prende le distanze infinite della risurrezione che certamente, in Cristo Gesù, concede anche ad Aldo. Rimane la sua morte come un dono, come un pegno e come un impegno per tutti noi: per noi sua famiglia, per la Chiesa nissena che lo generò alla vita cristiana col battesimo e al ministero presbiterale con l’ordinazione sacra, per la Chiesa monrealese sua famiglia pastorale, per le Chiese di Sicilia e d’Italia che lo hanno avuto come indefesso lavoratore e servitore. Nella morte di Aldo, nella sua bruttura, dobbiamo sperare anche per noi, qui, in questa terra, ciò che ad Aldo è regalato nel cuore eterno di Dio: la bellezza della resurrezione, la bellezza del risorgere dal peccato e dalla morte ch’esso semina lì dove si annida.

    Stavamo, Aldo, fratello mio e mio maestro, lavorando insieme ad un libro sulle icone del Risorto raffigurate in questa basilica monrealese, tua cattedrale. E avevamo deciso di intitolarlo con la frase con cui l’evangelista Giovanni descrive l’effetto delle apparizioni del Risorto nell’esperienza dei suoi discepoli: Gioirono al vedere il Signore. Ora anche tu Lo vedi in pienezza. Ed è questa la tua gioia eterna.
    DON MASSIMO NARO

  18. Michele
    20 ottobre 2007 alle 12:50

    COMMIATO DI DON MASSIMO NARO,FRATELLO DI MONS. CATALDO NARO,PRONUNCIATO ALLA FINE DELLA MESSA ESEQUIALE NELLA CHIESA MADRE DI SAN CATALDO (CL),CITTA’ NATALE DEL PRESULE, IN DATA 4 OTTOBRE 2006.

    Miserationum Domini recordabor: questo è il motto episcopale di Aldo, scolpito già sulla tomba che ne ospiterà il feretro. Aldo è stato davvero coerente a questo suo motto, che scelse nei giorni successivi alla sua elezione: Ricorderò le misericordie del Signore. Le parole del profeta Isaia sono state per lui, al contempo, sintesi della sua vicenda umana, cristiana e presbiterale precedente all’ordinazione episcopale e programma anche degli anni del suo breve ma intenso episcopato.

    Il rimando al “ricordo” delle “misericordie” usategli da Dio non si spiega soltanto alla luce della sua notissima sensibilità per lo studio della storia. Si illumina di senso anche e soprattutto se si getta lo sguardo dentro il suo cuore, nelle pieghe intime della sua spiritualità e della sua esperienza credente. Aldo era consapevole (“consapevole”…, non semplicemente e magari arbitrariamente “convinto”) di essere stato, grazie al battesimo, coinvolto nel grande mistero di Dio che si compie per noi uomini nell’orizzonte della storia della salvezza. Dio è invisibile ─ mi diceva spesso ─ non perché “non si vede”, ma perché è Dio. Dio è Dio. Questa tautologia, su cui egli tante volte s’era soffermato a parlare con me, mentre insieme commentavamo le pagine di un grande testimone del cristianesimo contemporaneo a lui tanto caro ─ don Divo Barsotti ─ si ritrova spiegata oltre che nella riflessione di Karl Barth, anche nella lunga e ricca tradizione teologica medievale e cattolica, da Anselmo d’Aosta a Tommaso d’Aquino, sino a Romano Guardini e a Balthasar, questi ultimi fra i teologi contemporanei che egli leggeva con rinnovato interesse proprio dacché era diventato vescovo e che insistentemente citava nelle sue omelie e nei suoi scritti pastorali, insieme a grandi poeti come Turoldo e Montale. Ma si trova già e innanzitutto nella preghiera del salmista: «O Dio, tu sei il mio Dio…» (Sal 61,2). Dio è dunque invisibile perché è tutt’altro da noi. E, tuttavia, è disposto a trascendere la sua stessa trascendenza, ad avvicinarsi a noi, ad azzerare la radicale alterità rispetto a noi, a farsi a noi così prossimo da lasciarsi finalmente possedere da noi. Questo è la storia della salvezza: questo rapporto di Dio con ciascuno di noi, che fa essere ciascuno di noi in rapporto con Lui e perciò con tutti coloro che sono a loro volta in rapporto con Dio, in Dio, per Dio. Ecco perché la storia della salvezza, costellata di meraviglie divine che occorre celebrare e ricordare con gratitudine, è fondamentalmente storia di santità e di santi. Aldo ne era lucidamente consapevole. Per questo motivo, per lui, la storia che studiava con la sensibilità, con il gusto e con la competenza dello storico di professione, ha il suo capitolo centrale nella storia della Chiesa. E questa, la storia della Chiesa, ha il suo capitolo più bello e più importante nella storia della santità. La santità era, per lui, il contenuto principale della storia della Chiesa, che è storia di santi: i tanti santi di un tempo e quelli non meno numerosi, anche se forse non ancora conosciuti, dei nostri tempi. I santi che anche nella sua Sicilia, a Caltanissetta e a Monreale, ci sono stati: quelli che Aldo con immenso amore ha elencato nella litania delle figure spirituali della sua diocesi. I santi che incontrano Dio ovunque, sulle diverse frontiere ─ ecclesiali, ma non solo ─ della loro vita quotidiana, nei monasteri e negli istituti di vita consacrata come negli oratori parrocchiali, all’università come in fabbrica, nelle piazze come nelle sagrestie.
    Ed era, per lui, la santità, anche la chiave di lettura della storia ecclesiale stessa: non solo un capitolo di essa, ma anche la cifra con la quale interpretare il mistero della Chiesa, casta meretrix, composta di peccatori che però sono insistentemente invitati e condotti da Dio alla conversione e alla riconciliazione con Lui.
    Ed era, inoltre, la santità, cioè il rapporto iniziato e mai interrotto, sempre ripreso, rinnovato, purificato, tenacemente e fedelmente intrattenuto da Dio stesso con il credente, l’orizzonte in cui, con inevidente, discreta, ma anche radicale tensione, egli stesso, Aldo, tentava giorno per giorno di camminare. Non solo una “cosa” da studiare, non solo una “chiave di lettura” per capire il mondo e la Chiesa, ma anche l’unica possibilità, per un cristiano come lui, di vivere bene nel mondo e nella Chiesa.

    Tutto questo egli lo capiva benissimo già da prima di essere vescovo. Ma da vescovo cominciò anche a sperimentarlo sempre più profondamente. Così, reputo, si debbano interpretare due dei suoi più bei doni alla Chiesa di cui fu pastore: le sue due lettere pastorali. La prima, quella sul “futuro” delle parrocchie della sua diocesi, lettera fattiva, progettuale, attenta alla situazione monrealese fino al dettaglio, realistica, non melliflua, non retorica. E la seconda, quella il cui titolo sintetizza bene il suo vero programma pastorale: Amiamo la nostra Chiesa, quella stessa Chiesa fatta, nel corso dei secoli, di quelle meraviglie divine che sono stati i santi, i beati, gli spirituali monrealesi da lui elencati nella sua litania. Due facce della stessa medaglia, i due versi di uno stesso distico. Come a dire che non ci può essere una efficace prassi pastorale, se non ci sono radici spirituali (i santi appunto) e se non c’è radicamento spirituale: cioè l’amore da nutrire per la Chiesa.
    Da queste due lettere pastorali si ricavano poi le problematiche ecclesiali su cui egli lavorava a livello nazionale, come presidente della commissione CEI per la cultura e come membro del Consiglio permanente della CEI, e su cui invitava anche la sua diocesi a immaginare e a progettare il suo rinnovamento: la questione della efficace trasmissione della fede oggi in una terra come la Sicilia; la questione della ministerialità nella Chiesa, variamente espressa ed articolata, e la correlata questione della ministerialità della Chiesa nella società odierna, nel solco di quello che la Chiesa italiana tutta ha, in questi ultimi dieci anni, percorso come la strada del progetto culturale cristianamente ispirato; la questione del discernimento ecclesiale, evangelicamente motivato e argomentato, sulle varie realtà del mondo in cui viviamo: del dialogo tra le religioni monoteistiche, della secolarizzazione e del secolarismo, del martiriale confronto tra legalità e illegalità nelle zone ad alta densità mafiosa.
    Sono questioni per le quali tante volte si metteva in contatto con me ─ egli che non aveva bisogno di me, essendo un vulcano di idee, un vaso stracolmo di intelligenza credente e di buona volontà ─ per chiedermi di collaborare con lui, alle sue tantissime iniziative culturali e pastorali: al Centro Intrecciagli da lui desiderato per lo studio delle figure spirituali di Monreale, alle settimane bibliche da lui organizzate ogni anno per i catechisti, ai convegni da lui voluti e realizzati con ritmi incalzanti per gli insegnanti di religione, ai progetti di ricerca socio-religiosa sul territorio da lui avviati con alcuni suoi più e meno giovani presbiteri e con i laici impegnati della diocesi al fine di fruire poi pastoralmente dei risultati di tali ricerche.

    Ho detto che le sue lettere pastorali sono “due” dei “doni” da lui lasciati alla sua diocesi. Ma anche la visita pastorale, fatta con dedizione, anzi con abnegazione, senza risparmiarsi fatiche nel viaggiare da un capo all’altro, senza avere paura di parlare con tutti e di tutto, senza avere paura di mettere le mani lì dove era necessario e doveroso metterle. Ed anche la sua vita, portata a termine con questa sua morte, è stato un dono alla Chiesa: non solo a quella monrealese, ma soprattutto a quella monrealese. Anzi: è stata, a mio parere, il suo più bel dono. Voglia Dio che la sua morte venga colta e accolta anche come il compito più importante che mio fratello lascia al suo popolo ecclesiale e alla Sicilia e alle Chiese d’Italia per le quali pure tantissimo lavorò e faticò con la ferma speranza di contribuire ad un futuro bello e positivo per il cattolicesimo italiano e per l’intero nostro Paese.

    Ora noi lo salutiamo qui, nella sua diocesi d’origine, nella sua città natia. Qui egli, con pazienza, con umiltà, con intelligenza, con amore, è diventato a poco a poco ciò che è stato, con lo studium che sempre e ovunque lo ha poi caratterizzato. Uso il termine latino per dire che lo studio, per lui, fu un atto d’amore, fu zelo pastorale, fu interesse culturale, fu impegno civile. Non otium, ma studium. Lavoro intellettuale, cristianamente ispirato, fatto non per sé e in solitudine, per riposarsi, per svagarsi, per autocoltivarsi, ma per gli altri e con gli altri. Chi sa cos’è stato il Centro Studi Cammarata, da lui creato e diretto per vent’anni, può comprendere cosa intendo dire: una storia d’amicizia con tutti e di tutti, che dalle viuzze del quartiere San Giuseppe si è allargata a tutta la Sicilia, a tutta l’Italia e ancora di più e oltre. Una storia di amicizia intrecciata da Aldo innanzitutto nella linea del tempo: mettendosi in dialogo con le personalità da lui studiate, con le loro antiche carte, con i fatti storici di cui essi erano stati protagonisti, a livello politico, economico, sociale, culturale, ecclesiale, spirituale. E, quindi, anche nella linea dello spazio: amicizia con le vecchiette che abitano nel vicolo in cui sorge la sede del Centro Cammarata e che oggi mi ricordano inopinatamente le parole ch’egli rivolgeva loro, amicizia che si allargava ai professori universitari e ai giovani ricercatori locali, agli editori, ai tipografi, ai collaboratori d’ogni tipo, ai soci del Centro, agli amici della stagione di “Argomenti”, agli amici affezionati alle iniziative culturali da lui organizzate, agli amici lontani, raggiunti con insistente cordialità dagli inviti e dai libri da lui spediti in dono, agli operatori culturali delle grandi città e dei paesi di provincia, agli uomini – ecclesiastici e laici – di buona volontà impegnati per la Chiesa italiana, ai religiosi da lui conosciuti, ai laici consacrati, ai laici politicamente e socialmente impegnati, agli operatori nel mondo dell’informazione e dei media, ai colleghi – alcuni a lui vicini come fratelli – della Facoltà Teologica a Palermo e dell’Istituto Teologico di Caltanissetta, ai preti suoi confratelli nella diocesi nissena, sempre da lui stimolati a svolgere il loro ministero con amore intelligente, fino al suo vescovo, e ancora, ad oltranza, fino alla gente monrealese, ai giovani della diocesi di cui fu vescovo, alle donne e agli uomini di buona volontà conosciuti e amati immensamente nell’esercizio del suo travagliato episcopato.

    Sì: travagliato, come lui stesso mi diceva talvolta, confidandomi alcune sue pene, alcune sue delusioni, alcuni suoi smarrimenti, insieme però alle sue incrollabili speranze, al suo sorriso pudico e sgargiante al contempo, alla sua gioia causatagli dalla collaborazione di alcuni suoi presbiteri su cui appuntava le speranze per il rinnovamento, al suo ottimismo. E il suo ottimismo non era facilone. Aveva piuttosto una qualità pasquale, si fondava sulla logica evangelica del chicco di frumento caduto tra le zolle, che non può portare frutto se non marcisce, se non si spacca, se non si annichilisce. Non si può essere ottimisti se non c’è travaglio. E il travaglio è positivo solo se infine è ottimista. Come avviene quando una madre dà alla luce il suo bimbo. Come accadde quando i discepoli di Gesù, impauriti e perplessi, ne trovarono la tomba ormai svuotata. Come avvenne quando i due di Emmaus, allo spezzare del pane, videro dissolversi il velo della loro tristezza e sentirono rinascere in loro la speranza che avevano prima smarrito. Per Aldo è stato proprio così: ho trovato un biglietto sul suo comodino, nella sua camera da letto: un foglietto con su impresso il logo della Conferenza Episcopale Italiana: sul verso bianco, con la sua inconfondibile grafia, tre annotazioni a penna, uno, due e tre, com’era solito scrivere e parlare ai fedeli di Monreale: «1) rendo grazie per voi, siate degni del dono fattovi… [e quest’ultima parola è sottolineata]; 2) vieni e visita la tua vigna [parola sottolineata tre volte]: pregate per la nostra Chiesa, perché il Signore sciolga i cuori induriti [qui segue il termine “pessimista” che viene però cerchiato e a cui segue un’altra parolina “spero…”]; 3) preghiera: perché lasci indurire il nostro cuore, perché non ti temiamo? [e questa frase è interamente sottolineata più volte]».
    Il suo travaglio è ora il nostro travaglio. La sua speranza è ora la nostra speranza. E devono essere anche il travaglio e la speranza della sua Chiesa, della diocesi monrealese. Aldo mi confidava che Monreale aveva bisogno di questo tipo di travaglio e di questa speranza. Parlandomi di come mons. Intreccialagli aveva vissuto il suo episcopato a Monreale, mi diceva che sentiva talvolta la stessa solitudine sperimentata dal suo santo predecessore. Ed è per questo che desiderava essere sepolto nel duomo di Monreale, ai piedi della tomba del servo di Dio mons. Intreccialagli. «Per tenergli compagnia e per farmi tenere compagnia», mi diceva. Ora, invece, Aldo sarà sepolto qui, nella chiesa madre di San Cataldo, accanto a un’altra serva di Dio sancataldese, Marianna Amico Roxas, amica e discepola di Intreccialagli, quando questi – prima di trasferirsi a Monreale – era vescovo della diocesi nissena. E amica spirituale di Aldo, che a lei – come a Intreccialagli – ha dedicato gran parte dei suoi studi storici e ha rivolto tante sue preghiere. Aldo capisce e approva il perché di questa mia scelta, come la capiscono e l’approvano tutti i suoi veri amici, memori del suo buon senso e della sua sapienza: egli capisce e approva di non essere così sottratto, finché sarà giusto e necessario, alla pietà della sua mamma. Tornerà nella sua ammiratissima cattedrale, tornerà ai piedi di mons. Intreccialagli di cui era devotissimo, tornerà tra il suo amatissimo popolo ecclesiale, tra la stimatissima gente di Monreale, di Corleone, di Terrasini, di Isola delle Femmine, di Altofonte, di Partinico, di San Cipirrello, di Giuliana, di Capaci e di tutti gli altri paesi della sua diocesi, tornerà dove egli desiderava riposare, nel sepolcro rimasto per secoli vuoto benché fosse stato già preparato per l’arcivescovo Ludovico II Torres, altro grande suo predecessore, amico di san Filippo Neri e del cardinale Federico Borromeo, anche lui, come Aldo, innamorato dello splendore dei mosaici del duomo e desideroso di illustrare di splendore la storia della Chiesa monrealese. Ma tornerà, Aldo, a Monreale solo quando il posto per la sua sepoltura sarà scavato nella nostalgia dei suoi fedeli, nella loro memoria, nell’espressione sincera e inequivocabile della loro gratitudine al Signore per il dono che hanno ricevuto nel vescovo Cataldo.

    Aldo, la tua diocesi, in cui sei nato alla fede e in cui sei stato presbitero, la città dei tuoi natali, ti salutano stasera e riaccolgono le tue spoglie. Mi chiedevi sempre di tutto e di tutti. Avevi ancora a cuore le sorti della diocesi nissena. E hai portato ovunque il nome di San Cataldo: nelle biblioteche di tutt’Italia, nelle citazioni degli studiosi, nell’ammirazione degli amici che avevi ovunque in Italia, hai fatto includere il tuo paese d’origine nei loro interessi, nelle loro conoscenze, in alcuni loro progetti. Ci hai ricordati. E noi per sempre ti ricorderemo. Tu ricordati ancora di noi, innestaci così nel cuore eterno del Signore.
    DON MASSIMO NARO

  19. Michele
    20 ottobre 2007 alle 21:16

    Assemblea Diocesana di Azione Cattolica
    Poggio S. Francesco 8 Ottobre 2006
    In ricordo di Mons. Cataldo Naro

    Ripensando ai vari incontri che come Azione Cattolica abbiamo avuto con Sua Ecc. Mons. Cataldo Naro appare evidente che essi non sono mai stati formali o solo di circostanza, ma sempre carichi di significato,di stimoli, di confronto, di crescita. Ogni incontro con lui, ogni sua affermazione o domanda erano occasione di riflessione, di presa di coscienza delle nostre responsabilità, di ulteriore impegno di crescita nella fede nei confronti della nostra vita personale e di quella dell’Associazione a noi affidata, anzi di tutta la Chiesa diocesana che egli ci spingeva ad amare e a servire.
    Quanti progetti, quanti Convegni, quante attività abbiamo condiviso insieme! A cominciare dal suo primo interessante intervento tenuto il 25 Gennaio 2003, in occasione del “ Mese della Pace”, a Monreale sul tema:”Il discorso della Chiesa sulla Pace nel Novecento”. Il suo pensiero acuto e puntuale ci ha aperto nuovi orizzonti, ha suscitato nuove consapevolezze, ci ha spronato a vivere il nostro essere laici di AC dedicati alla Chiesa diocesana, con la certezza che è “un impagabile onore” lavorare con il Signore, nella sua vigna. Così si era espresso Sua Ecc., nell’Assemblea diocesana dello scorso anno, tenutasi a Rocca il 18 settembre 2005, per l’apertura dell’anno sociale, commentando
    i1 Vangelo del giorno (Mt. 20, 1-16), durante la celebrazione eucaristica, e trattando per noi, laici di AC, questo tema dell’amore alla Chiesa da esprimere attraverso il servizio, invitandoci ad essere operai consapevoli e grati di lavorare nella vigna del Signore. Tema che poi ha mirabilmente sviluppato nella sua lettera pastorale “AMIAMO LA NOSTRA CHIESA” che possiamo considerare il suo testamento spirituale.
    Come non ricordare l’immensa gioia per la Beatificazione di Pina Suriano, avvenuta il 4 Settembre 2004 a Loreto e preceduta da un intenso lavoro che ci ha aiutato a conoscerlo meglio e a stimarlo sempre di più per tutte le sue ricchezze spirituali! E l’appuntamento tanto desiderato dello scambio di Auguri ad ogni Natale e Pasqua con tutto il consiglio diocesano era sempre occasione di confronto, era un riferire al Pastore e Padre le nostre fatiche e le nostre gioie e avere da lui conforto e stimolo ad essere sempre più presenti nei posti più lontani o più difficili della Diocesi. Abbiamo ancora nel cuore il suo invito accorato:”Vi prego in ginocchio, aiutatemi a curare la qualità della fede delle nostre parrocchie, a sviluppare un sentire comune di Chiesa e un’identità cristiana consapevole. Vi affido questo compito come mandato”. Ce lo ha detto durante l’Assemblea Diocesana elettiva del 19 Febbraio 2004 e lo ha puntualizzato poi nella mia nomina a Presidente diocesana.
    Sì, possiamo affermare che ha amato e apprezzato l’AC della sua diocesi , anche se non era solito fare complimenti a buon mercato e non accordava certo privilegi ma chiedeva spirito di corresponsabilità e condivisione. Abbiamo saputo che uno dei suoi ultimi pensieri è stato quello di mettere all’ordine del giorno di un incontro che avrebbe dovuto tenere il 5 di ottobre con i vicari episcopali l’argomento dell’AC riguardante:”Il sostegno da dare ad un reimpianto dell’Associazione di Azione Cattolica nella nostra Diocesi”. Frutto sicuramente dell’esperienza maturata durante la visita pastorale ma anche segno della sua stima verso l’Associazione.
    Bisognava saper leggere nei suoi sguardi e nei suoi gesti, ma soprattutto nella concretezza delle sue azioni per capire i suoi sentimenti. Era delicato e riservato Mons. Cataldo Naro, ma anche concreto e premuroso.
    Come non ricordare il suo gesto nel donare un libro…, il suo volto si illuminava anche quando era preoccupato, gli occhi sorridevano e ti porgeva il libro come se ti stesse dando la cosa più preziosa al mondo…ed infatti era veramente così..
    Ogni libro datomi, dal primo che mi ha fatto pervenire, prima del suo arrivo in diocesi, in risposta ai voti augurali formulati a nome dell’Associazione, dal titolo significativo”Concittadini di Dio”, all’ultimo regalatomi di recente, l’ho accolto e letto con grande ammirazione e rispetto e li conservo tutti gelosamente. Del suo libretto sulla Beata Pina Suriano che raccoglie alcuni suoi scritti ed omelie, ha voluto fare dono a tutti i soci di Azione Cattolica della diocesi, perché sentissero la figura della Beata più vicina e ne conoscessero la ricchezza spirituale.
    Tanti ricordi, tanti momenti vissuti insieme, tante lezioni di fede, di vita , di cultura ognuno di noi si porta dentro del nostro amato Arcivescovo,che purtroppo abbiamo avuto tra noi per troppo poco tempo, possiamo e dobbiamo maturare però dentro di noi i suoi insegnamenti, fare tesoro delle sue indicazioni. Avremo sicuramente tante altre occasioni per fare questo, oggi vogliamo soltanto dedicargli la nostra assemblea alla quale aveva assicurato sarebbe stato presente, anche se per poco, avendo assunto anche altri impegni.
    Adesso,con gli occhi della fede, siamo certi della sua presenza e gli diciamo:”Grazie, Eccellenza! Sei stato per noi un prezioso dono di Dio. Il ricordo di te è passato nei nostri cuori e, in virtù della Comunione dei Santi, pregheremo per te, ma siamo certi di avere in te, come tu stesso dicevi dei Santi, un amico presso il Signore che intercede per noi. Continuiamo a ricordarci sempre delle misericordie del Signore!

    Agostina Aiello
    Presidente diocesana
    IN RICORDO DI SUA ECC. MONS. CATALDO NARO
    (Di Agostina Aiello – presidente A.C. diocesana)
    L’abbiamo avuto
    per troppo poco tempo tra noi
    come un soffio dello spirito
    che devi saper cogliere
    nell’attimo che passa….
    ma è bastato ad aprirci
    orizzonti nuovi…
    spazi sconosciuti…
    semantiche di cui
    avevamo perso forse
    significato e gusto.
    Aveva passato nel suo cuore
    come diceva sempre
    tante e tante persone
    tante e tante situazioni
    e il suo cuore non ha più retto…
    è trasbordato nel signore!
    grazie eccellenza
    di essere stato tra noi
    ci ricordi al Signore!

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