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Ecologia e psicologia. Profezie che si autoavverano: la sindrome di Cassandra

La profezia di Cassandra

La profezia di Cassandra

Il dibattito filosofico intorno ai temi dell’ecologia ha da tempo assodato che esistono cause culturali della crisi dell’ecosistema. La novità assoluta, rispetto ad altre crisi ecologiche del passato, non consiste semplicemente nelle dimensioni, pure mai raggiunte prima d’ora, di quella attuale. Ciò che appare nuovo, è principalmente quella che si potrebbe chiamare l'”intensità qualitativa” del problema attuale, il suo carattere globale. Quest’ultimo appare strettamente legato alla pretesa degli atti umani di valere non solo sul piano delle contingenze culturali in cui storicamente si pongono, ma d’essere portatori di un “di più” trascendente il mero mondo dei fatti, di essere vettori di significati validi in proiezione universalistica. Tale dimensione antropologica della crisi ecologica merita di essere approfondita con gli strumenti specifici delle scienze umane.

Il dibattito pubblico sulla crisi dell’ecosistema, muovendosi tra rimozioni e catastrofismi, assume l’andamento oscillatorio di una sindrome psicosociale, che ricorda il personaggio omerico di Cassandra. In modo del tutto analogo alle apocalissi culturali magistralmente studiate da E. De Martino, quella di Cassandra è una sindrome da fine del mondo (o, almeno, di certi mondi) tipica dei passaggi di crisi culturali. Come nella vicenda della mitica profetessa troiana condannata a non essere creduta, l’apocalittica ecologica esibisce anzitutto una singolare struttura prolettica: è la rivelazione stessa che, mentre annuncia la catastrofe, la rende ineluttabile per cause connesse, in definitiva, non al problema in sé ma ai modi della comunicazione e delle dinamiche dell’organizzazione sociale. Le analogie non finiscono qui. La sindrome di Cassandra contiene in sé complesse tendenze (auto/etero) colpevolizzanti, sullo schema della personalità corporativa e delle dinamiche vittimali del capro espiatorio e della sostituzione vicaria. Simile ad un eroe cosmico, il cui sentire esprime una sua misteriosa comunione con le più profonde energie collettive, la cassandra attira su di sé la punizione proponendosi come sostituto espiatorio a nome della collettività; fa leva sulle paure collettive e accentua i caratteri apocalittici della propria predicazione allo scopo di rendere più promettente l’offerta salvifica di sé. Richiamando l’attenzione sulla propria persona, e distogliendola, in definitiva, dal problema incombente e da una possibile soluzione preventiva, la cassandra mitizza i contorni del problema stesso celandone le vere dimensioni storiche e politiche. Il complesso esita in una profonda frustrazione per l’incapacità di agire tempestivamente ed efficacemente, mentre Cassandra finisce per distruggere se stessa: mentre trova conferma della propria ideologia di salvezza, provoca, proprio per questo, la catastrofe collettiva annunciata.

Da sindrome di Cassandra sembra essere affetta, per il suo autolesionismo, certa ecofilosofia profonda di stampo non antropocentrico. Seguo qui la fondamentale classificazione di A. Naess che distingue tra Shallow Ecology e Deep Ecology (ecofilosofie “superficiali” e “profonde”). La prima categoria raggruppa quei pensatori che applicano alle questioni ecologiche paradigmi di pensiero tradizionali; sono “profonde”, invece, quelle ecofilosofie che respingono categorie già note alla tradizione filosofica o perché le ritengono inadeguate o perché addirittura compromesse con fattori che contribuiscono alla crisi dell’ecosistema. La tendenza catastrofista di certe manifestazioni estreme di pensiero ecocentrico non è legata al loro carattere “profondo”, cioè fondativo, di questo genere di riflessione filosofica, ma piuttosto alle varie sfumature di non-antropocentrismo che taluni ritengono imprescindibili dalla Deep Ecology. Alcune di tali ecofilosofie conducono semplicemente una critica all’antropocentrismo ritenendolo inseparabile da una epistemologia di dominio sulla natura; altre si limitano a suggerire la soppressione del punto di vista antropico come semplice esperimento mentale, invitando, ad esempio, secondo il celebre aforisma di A. Leopold, a “pensare come una montagna”; altre ancora sfiorano la misantropia, qualcuna si spinge fino ad affermare, più o meno esplicitamente, che la specie umana rappresenta un clamoroso errore evolutivo, che per la natura meglio sarebbe la scomparsa del genere umano, ecc. L’intento di ogni ecofilosofia profonda è quello di combattere il tradizionale atteggiamento di dominio sulla natura da parte della religione, della filosofia, del diritto, della scienza, con l’arma dell’attitudine etica dell’ecologia, in nome e per conto di una visione olistica e del valore intrinseco delle entità naturalistiche. Ora, voler ottenere questi scopi, con questi mezzi, e nel contempo contestare l’antropocentrismo, equivale a segare il ramo su cui si sta seduti. La vocazione moralistica delle ecofilosofie non-antropocentriche è, più esattamente, parenetica: alzano retoricamente la voce, fanno leva sull’emotività e le paure collettive proprio perché la loro efficacia pratica è pari a quella del classico pugno battuto sul tavolo; ma la loro capacità di incidere beneficamente sulla crisi ecologica è inversamente proporzionale all’intensità dei loro toni apocalittici.

Un secondo esempio di sindrome di Cassandra è legato alla peculiare mitologia dell’occidente secolarizzato: il potere salvifico della tecnologia. Benché la trasformazione della materia, tramite il lavoro, imprima valore alle cose fino a mutare il significato della stessa operatività umana, non è nei poteri della tecnologia trasformare la barbarie in civiltà. L’invenzione e la diffusione di tecnologie avanzate fa di una civiltà una civiltà avanzata e di una barbarie una barbarie avanzata. “Non possiamo conoscere per intero neppure il più piccolo pezzo di mondo” è l’aforisma popperiano che indica nel riduzionismo originario della scienza moderna il cuore della sua onestà intellettuale, da cui proviene una continua lezione di umiltà. Perciò questa tendenza riduzionistica, impressa nell’atto di nascita della scienza, quando incontra ed instaura un rapporto privilegiato col pensiero tecnologico dà luogo ad un curioso paradosso. Lo sviluppo tecnologico, infatti, è mosso da una tendenza contraria, la tendenza ad un’espansione globale, a forzare i limiti ed agire nell’ignoranza. Il paradosso, poi, esplode, di fronte alla globalità sistemica e non riduzionistica dell’attuale crisi ecologica. Ciò specialmente quando alla crisi dell’ecosistema, causato da un modello di dominio tecnologico globale sulla natura, si ipotizzano soluzioni consistenti essenzialmente in un maggiore investimento di tecnologia..

Tra gli scopi della scienza vi sarebbe quello, popperianamente, di impedire ai politici di provocare danni catastrofici. Come ci si è sforzati di mostrare, però, la novità del problema che l’umanità ha di fronte con la questione ecologica, in confronto, poniamo, con la corsa agli armamenti degli anni ’60, non è tanto il fatto, contrariamente alla tesi di partenza di H. Jonas, che è in gioco la sua stessa sopravvivenza, ma soprattutto il fatto che né le scienze così come si sono strutturate a partire dal razionalismo moderno, né l’ecologia, singolarmente prese, saranno in grado di dare una risposta. Se non si troverà il modo di cogliere scientificamente il nesso tra la globalità della crisi dell’ecosistema e il carattere globale dell’interazione culturale uomo-natura il grido di Cassandra non basterà a scongiurare la catastrofe ed anzi, suo malgrado, si presterà a strumentalizzazioni e manipolazioni politiche. Così come è recentemente accaduto nel discorso di Bush al Congresso, il politico usa le paure collettive come merce di scambio per reiterare politiche aggressive, ingiuste, antidemocratiche e sommamente dannose per l’ecosistema. Una risposta realmente consapevole del significato culturale del trapasso della questione ecologica dalle sue dimensioni quantitative a quelle qualitative deve saperne riflettere la complessità anzitutto sul piano epistemologico. Occorre una visione ecofilosofica profonda e al tempo stesso profondamente umanistica, senza inutili e dannosi catastrofismi. Una riflessione epistemologica che si ponga l’obiettivo d’individuare l’eventuale punto di contatto tra una nuova gestalt ecologica ed un antropocentrismo non dispotico nei confronti della natura. Le dimensioni e l’intensità dell’attuale crisi ecologica fanno sentire la mancanza di un sapere interdisciplinare, una scienza-ponte in grado di rinvenire il nesso tra progresso tecnico-scientifico ed evoluzione della coscienza morale, tra il riduzionismo della ragione calcolante e l’approccio olistico e prudenziale delle grandi visioni sapienziali, tra diritto universale ad abitare pacificamente la terra ed equilibrio dell’ecosistema.

Per approfondire:

Natura e città. Un percorso ecologico

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  2. 15 febbraio 2010 alle 10:02

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