Home > Antropologia, Filosofia, Scuola, Zibaldone > Di cosa parliamo quando parliamo di scuola

Di cosa parliamo quando parliamo di scuola

Mentre si parla di tagli alla scuola può accadere pure che il contribuente paghi due volte la stessa ora di lezione. E’ ciò cui ho assistito nelle scuole professionali e ciò che mi succede di dover vedere anche quest’anno, ora che insegno in un liceo: una certa associazione propone al Dirigente d’Istituto approfondimenti pomeridiani, diciamo, d’inglese, arte, informatica e psicologia. I corsi sono finanziati con fondi regionali, il preside accetta, il collegio dei docenti delibera, il progetto parte. La didattica degli insegnamenti curriculari, quella che si svolge nelle ore mattutine, ne risente, perché i ragazzi sono maggiormente impegnati e hanno minore disponibilità di tempo per lo studio personale. Finisce che, se possibile, studiano a casa ancor meno del solito. Ma, pensa il docente titolare della cattedra dell’insegnamento curriculare, il tempo sottratto allo studio personale è compensato da una maggiore ampiezza dell’offerta formativa. Fin qui tutto bene, dunque. Ma si sono fatti i conti senza l’oste, la classe, che, vedendosi aumentare il carico di lavoro senza nulla in contraccambio e senza miglioramento delle condizioni di studio, comincia a disertare le ore pomeridiane, sempre più spesso, cominciando dai fuori sede, fino ad assentarsi in massa provocando l’interruzione dei corsi. A questo punto la frittata è fatta. «Io, preside» infatti «ho pagato e non voglio sentire ragioni». La via d’uscita per giustificare le spese sarà assurda e inevitabile: l’approfondimento prende il posto delle lezioni di cui dovrebbe essere approfondimento, nelle stesse ore di scuola al mattino, con buona pace di ogni buon senso didattico, sia pure elementare.
Non è un esempio per dire la necessità di razionalizzare i fondi destinati alla scuola ma un fatto per dimostrare che la logica ultima che esige i tagli è la stessa che provoca gli sprechi.
Quando, bambino, chiedevo al nonno perché dovessi andare a scuola, egli rispondeva: «Per imparare a leggere e scrivere». Si tratta, fuor d’ogni dubbio, di un’idea in forte anticipo sui tempi, alla luce del fatto che quarant’anni dopo si fanno campagne elettorali e politiche scolastiche promettendo «Internet e inglese», cioè più o meno la stessa cosa di imparare a leggere e scrivere.
Ma, «Io so già leggere e scrivere!», rispondeva il bambino al nonno.
I tagli al sistema scolastico sarebbero perfettamente giustificati nell’ottica di mio nonno. I soldi spesi per la scuola sono certamente troppi se la scuola è davvero solo imparare a leggere, scrivere e far di conto. Ma l’età di mio nonno andava col secolo ed era operaio, non ministro dell’istruzione, aveva idee di destra, senza aver mai avuto tessere; era una persona intelligente, gli si può perdonare di non avere avuto idee particolarmente illuminate sulla scuola. Sono certo tuttavia che anche lui realizzerebbe oggi che imparare a leggere e scrivere, agli inizi del XXI secolo, non può essere la stessa cosa degli inizi del XX.

La nostra scuola è vecchia e costosa. Tanto più è vecchia quanto più è costosa. Qual è la causa di questo paradosso? Chi è ai vertici della piramide decisionale del sistema scolastico nazionale non ha una chiara idea di cosa sia la scuola, o meglio ne ha una, aziendalista, che non risponde a nessuna antropologia, ma solo alla logica della partita doppia.
Nel De Magistro (Il Maestro), scritto nel 389, un dialogo sulle condizioni di possibilità del linguaggio e dell’insegnamento (G. Madec), Agostino di Ippona respinge la tradizionale teoria denotativa del linguaggio per proporne una nuova e rivoluzionaria, di tipo “profetico”, del linguaggio come allusione ed evocazione.
Leggiamone il folgorante esordio:

«AGOSTINO: Secondo te, che cosa vogliamo ottenere parlando?
ADEODATO: Per quel che ora mi viene in mente, insegnare o imparare.
AG.: Sono d’accordo su uno dei due e mi appare evidente, perché è chiaro che parlando intendiamo insegnare; ma imparare, come?
AD.: E come credi se non interrogando?
AG.: Ma, anche in questo caso vedo solo che intendiamo insegnare. Perché tu, ti domando, interroghi per un altro motivo, che non sia insegnare a colui che interroghi?
AD.: Dici il vero.
AG.: Vedi dunque che con il linguaggio non desideriamo altro che insegnare»

A scuola, dunque, tutti insegnano a tutti. Insegnare è qualcosa di intimamente connaturato ad ogni essere umano in quanto essere linguistico.
Nel cap. 10 Agostino porta all’estremo le conseguenze di questa premessa. Il parlare e l’insegnare non sono mai attività strumentali né estrinseche l’una all’altra ma interdipendenti ed intimamente connesse al dinamismo profondo della crescita personale. Al punto che per Agostino vi è in ciascuno un maestro interiore che s’identifica con la parola (verbum), grazie alla quale la persona si costituisce interiormente e dialogicamente nella verità.
L’idea di Agostino sarebbe dunque che s’impara a parlare per far scuola, s’impara a far di conto per far scuola, s’imparano inglese e informatica per far scuola (e non viceversa).
Ma il Ministro dell’Istruzione non è Agostino d’Ippona. Con buona pace d’ogni buon senso didattico e con buona pace, pure, del contribuente.

Per approfondire:

L’ipotesi di Calamandrei

  1. 5 novembre 2009 alle 20:49

    Ho letto con godimento il testo indicato.
    Sulla bufala delle tre «i» e della manovra scomposta, avevo scritto anch’io un articolo per “A sud’europa” che ho riproposto nelle mie pagine

    http://www.kaloscam.com/?paged=3

    Sono d’accordo con GP nella collocazione del pensiero dolciano (che lui applicava a ogni cosa che faceva, perfino nella conversazione postprandiale); sono quindi d’accordo che la chiose di MTZ sul mio pensiero. Sottoscrivo due volte. Anche la ulteriore precisazione di GP non mi pare in opposizione e mi trovo ancora d’accordo.
    Mi corre l’obbligo di precisare che il mio pensiero era molto più semplice delle vostre chiose strutturate. Avevo infatti detto “a livello cognitivo”: i.e. nulla posso insegnare se non imparo dalla risposta al mio insegnamento. Il che significa solo che tengo in debita considerazione il cd feedback (ma io odio gli anglismi inutili). Non ipotizzo – anzi biasimo decisamente – un rapporto simmetrico docente discente. Uno conduce, molti seguono. Dico che il docente deve sentire il discente con la stessa curiosità che ha (O che il docente auspica che il discente abbia, il che rende indifferente rispetto al porsi in ascolto del discente che esso abbia o non curiosità. Essa è per il docente un postulato.) il discente che segue il docente.

    Detto questo gli asini sono dappertutto: tra i discenti come tra i docenti; tra un asino docimologo e un asino “nozionolgo” io preferisco di gran lunga il secondo.
    Un’ultima precisazione su autorevolezza e autorità. Non ho mai parlato di autoritarismo come male minore. L’autoritarismo del docente serve a una cosa sola: fare divertire gli studenti nell’irridere il docente; anzi a due: fargli fare pure le pernacchie.
    Ho distinto autorevolezza e autorità nel senso che chi ha la prima esercitò la sua autorità senza abdicare alla funzione educativa; chi non ce l’ha può ben esercitre uan oneste autorità di ruolo, essendo semplicemente onesto, senza scadere nell’autoritarismo.

    Francamente non saprei cosa aggiungere alla discussione: dall’ipponate alla bergamasca, quello che è la scuola e dove non potrà più tornare lo ha detto molto meglio di come possa dirlo io Ilvo Diamanti, in un articolo di qualche tempo fa che ho citato nel mio aricilo di prima. Eccovi il link:

    http://www.repubblica.it/2008/07/sezioni/politica/bussola-diamanti-25-lugl/bussola-diamanti-25-lugl/bussola-diamanti-25-lugl.html .

    • Maria Teresa Zito
      8 novembre 2009 alle 16:17

      Una società che non ritiene di avere nulla da imparare, dice Diamanti, è una società che non ha più bisogno di docenti: niente studenti, niente docenti! Solo gente che si fa da sè, piena di iniziativa piuttosto che di qualunque strumento culturale, piena di voglia di fare prima o al posto che di voglia di imparare…
      Maledetti professori!
      Eppure, la percezione è che c’è ancora in questo “lavoro” qualche ragione per continuare a farlo, a dispetto della ministra, delle riforme, delle tre “I” e delle altre vocali…
      Io credo fermamente che Diamanti, tra le cose tutte valide del suo articolo, ne dica una veramente importante: la responsabilità del degrado della condizione della scuola e dei docenti in buona parte gli appartiene, nel senso che, pur non essendo una respnsabilità diretta, abbiamo contribuito non poco a creare questo disastro della scuola italiana!
      Abbiamo contribuito rifiutando ogni logica della VALUTAZIONE del nostro operato in aula e fuori, e questa è la nostra vera responsabilità.
      Come se il nostro lavoro non potesse essere in sè oggetto di valutazione, e se non è valutabile va bene tutto: andiamo bene noi (che siamo bravi, potrei dire il contrario???) e vanno bene gli asini, come li chiami tu. Se non c’è differenza, siamo tutti bravi, in fondo, o tutti asini, come sostiene la ministra! Non fa una piega.
      Come ti avevo già accennato, la tematica della valutazione mi sta molto a cuore: che cosa vuol dire VALUTARE? E, ancora, che cosa è valutabile del nostro lavoro? I percorsi? I risultati? Entrambi? Nessuno dei due?
      E’ paradossale che chi per eccellenza non fa che valutare i processi formativi, gli esiti formativi degli altri, poi si ritenga non soggetto alla valutazione di nessuno.
      La valutazione è sempre una tematica scottante, in qualunque settore; in psicoterapia, per esempio, si sono dovute spendere migliaia di pagine di letteratura contemporanea per arrivare a dire che la cura psicologica non è un’arte, non è l’opera oscura e inconoscibile di uno sciamano ma è tecnica, strumenti, risultati, cambiamenti… Che, in quanto tali, DEVONO essere valutabili, in qualche modo misurabili nei termini di miglioramento della qualità di vita delle persone che si rivolgono a noi per essere aiutate!!!
      Ma ci sono tanti modi per sottrarsi alla valutazione intelligente del lavoro terapeutico, tanti modi anche sottili che passano attraverso impostazioni epistemologiche che postulano a monte l’artisticità del lavoro stesso e lo sottraggono ad ogni logica della valutazione.
      Se ci pensi, anche il sistema americano che valuta rigorosamente gli esiti della psicoterapia (anche perchè altrimenti le Assicurazione non la pagano!!!!)non fa che nascondere il vero oggeto della valutazione della cura, non fa che sottrarre alla visibilità i luoghi in cui il cambiamento dovrebbe divenire visibile!
      Un modo per non valutare nulla fingendo di farlo! Una americanata!
      … Mi ricorda qualcosa… Per esempio i questionari che riempiamo a fine anno su quanto abbiamo gradito i progetti pomeridiani del POF, su quanto siamo soddisfatti delle collaboratrici del preside… Vaghe somiglianze.
      Buona domenica!

      • kaloscam
        8 novembre 2009 alle 19:08

        Dici?
        Il problema della valutazione non è mai chi valutiamo, nè chi valuta e nemmeno come valuta.
        Il problema è perchè valutiamo. Per sapere se abbiamo raggiunto il risultato?
        Poniamo di si. Che significa, raggiunto il risultato? E che succede dopo che lo sappiamo?
        Significa chi rende omogenei e comparabili i risultati? L’OECD? Allora si parla di umorismo!

        PS Anche se non sembra, non ho nulla contro la VALUTAZIONE. Ma ho tutto contro la teologia della valutazione.
        Ho qualche rimedio?
        Si, ce l’ho: restiamo tutti a casa.
        L’assenza di valutazione non è la causa del degrado sociale, morale e culturale della scuola.
        E’ il degrado sociale, morale e culturale della società (ovvero della scuola) che produce il disinteresse per la valutazione.
        La politica ha riempito la scuola di ciuchi, colti e incolti, e di “bastoncini”. La politica l’ha riempiota, non è che si è riempita da sola. Ora la politica cerca i “segmenti”. Ma è una ricerca tardiva e quindi non credibile.

      • 8 novembre 2009 alle 22:17

        Ho letto il tuo articolo. Grazie per averlo linkato. “L’ipotesi di Calamandrei” l’avevamo già citata proprio in questo forum, qualche giorno prima che che venisse disseppellita dalla stampa, mi pare Repubblica. Ecco il link:

        Di cosa parliamo quando parliamo di scuola

        Nel tuo articolo citi anche il Piano di rinascita democratica, di Licio Gelli. Il relativo articolo su Wikipedia non è ancora considerato neutrale, per cui è consigliabile leggere il testo integrale, sempre su Wiki, e farsi un’idea.
        http://it.wikisource.org/wiki/Piano_di_rinascita_democratica

  2. 6 novembre 2009 alle 22:08

    L’angolo del buonumore:
    dal beppegrillo’s blog

    ” In rete circola una vignetta. Un maestro toglie il crocifisso e al suo posto ne piazza due. L’alunno, che sta osservando la scena, chiede perchè al maestro che risponde così: ‘Adesso i due ladroni rappresentano meglio il nostro Paese!’ “. PIETRO B.

  3. Maria teresa zito
    8 novembre 2009 alle 22:57

    “Il problema della valutazione non è chi valuta… ma è perchè valutiamo…” . Concordo. Premettendo che il problema della valutazione è, prima di tutto, considerarla in maniera “problematica”!
    Io credo che la stessa RESPONSABILITA’ che c’è nel processo di valutazione che compiamo tutti i giorni nei confronti dei nostri studenti, quella stessa responsabilità appartenga alla disponibiltà a mettere in discussione il nostro “saper fare” e il nostro “sapere”.
    la politica ha portato dentro la scuola una infinita serie di gente non valida, e certamente la responsabilità della crisi della scuola italiana non è nell’assenza della valutazione dell’operato della classe docente. concordo anche su questo.
    Ma forse parliamo di VALUTAZIONE da due ottiche diverse, a livelli diversi.
    Quando penso alla valutazione, penso alla trasparenza e alla comunicabilità dei dati, penso alla condivisione dei metodi con la comunità scientifica alla quale si appartiene, penso al dovere di palesare i passaggi che conducono ai risultati, non alla mera valutazione dei risultati stessi.
    Alla domanda che tu poni “perchè valutare?”, la mia risposta è perchè abbiamo una grande responsabilità nei confronti di chi si affida a noi e perchè mentre siamo abbastanza consapevoli dei nostri successi, non lo siamo abbastanza dei nostri fallimenti e istintivamente e in tutta buona fede tendiamo a disconoscerli.
    BIASES. Errori sistematici nel processo di attribuzione che compiamo costantemente sulla realtà.
    Credimi, dentro la scuola c’è di tutto. un mondo vario e variegato, dove ciascuno trova posto per sè e per le sue mancanze, di contenuti e di metodi e strumenti, ovvero per le sue ricchezze, o per entrambe.
    Ma chi paga questa co – abitazione?
    Che cosa cambierebbe con una valutazione sistematica delle competenze? Cambierebbe la percezione che abbiamo di noi stessi, nascerebbe il senso della responsabilità a migliorarsi, chi non sa non sempre è in mala fede, non sempre è un furbo, molto più spesso ignora semplicemente che ci sia altro da sapere, altro da saper fare. E’ la forma più elementare di ignoranza: quella non socratica, NON SAPERE DI NON SAPERE. dunque PRESUMERE di sapere.
    Credo che molto dipenda da questo. Il resto, come dici tu, dal fatto che la scuola non è che uno spaccato molto realistico della società, in pieno sfascio, nella quale viviamo.
    Buona notte.

    • 9 novembre 2009 alle 8:39

      Credi che il discorso attuale introno alla valutazione abbia i tuoi contenuti?
      O i miei (paventati)?
      Se ha i miei, non è il caso di non fare nulla?
      La valutazione dell’efficienza del risultato nella Scuola è un cavallo di Troia; serve per imporre il totalitarismo delle idee. Cioè il controllo delle coscienze.
      Cioè fare di una Persona che pensa con la propria testa un eversore.
      ATTENZIONE ai facili entusiasi; il tema della valutazione è un terreno seminato di mine anti-Uomo.

      • Maria teresa zito
        9 novembre 2009 alle 14:35

        Immagine icastica, bellissima: un Cavallo di Troia che, una volta entrato dentro le “mura” si mostrerà per quello che realmente è: un atrappola.
        “Il terreno della valutazione è disseminato di mine anti – uomo”!!!! ma, ti chiedo, senza polemica, con grande umiltà considerata la mia poca esperienza nell’insegnamento e la mia età, di che cosa è disseminato il terreno dell’assenza di ogni valutazione nel nostro lavoro?
        E, se io e te coltiviamo la COSCIENZA del dovere e della responsabilità del nostro operato istituzionale e pubblico, del nostro lavoro come un SERVIZIO per il quale occorre studio, tempo, continua costruzione di competenza, cosa fanno gli altri???
        Se posso andare a fare il commissario all’esame di maturità e dovere valutare il nulla e il vuoto di contenuti, se devo far diplomare anche chi neppure sa di che parliamo quando parliamo di “dialettica” 8per fare solo un esempio) in filosofia, in nome del fatto che ognuno in classe fa ciò che vuole, mi viene qualche dubbio…
        Che senso ha, ma non per me, per me potrebbe anche avere un senso, ma che senso ha per i ragazzi, che senso ha per la funzione educativa che ha la scuola, cosa c’è di educativo in questo?
        La libertà di insegnamento non si esrcita in questo, io credo che se la valutazione acquistasse il suo reale significato euristico del processo educativo nessuno perderebbe nulla del suo patrimonio di libertà di insegnare.
        Ma forse l’università è un contesto diverso, forse i nostri target sono lontani perchè le nostre esperienze sono lontane… Spero che le tue siano davvero lontane dagli orrori ed errori grossolani con i quali mi confronto io tutti i giorni… in nome della “libertà” di cui parliamo.
        Considera che la mia formazione e buona parte del mio lavoro si sono sempre svolti “oltre il Pò”, a Milano e dintorni.
        Dove, a fronte di ben altre “mancanze” e di ben altre problematiche, l’esigenza di scientificità e di controllo è molto forte e molto sentita in tutti.
        buona giornata.

  4. 9 novembre 2009 alle 18:10

    «di che cosa è disseminato il terreno dell’assenza di ogni valutazione nel nostro lavoro?»
    del noto fannullonismo del quale Brunetta enfatizza i toni e strumentalizza i rimedi; ma il male c’è; dell’asinismo: ma temo che nessuna valutazione potrà porvi rimedio, fino ad estinzikne della specie.

    «E, se io e te coltiviamo la COSCIENZA del dovere e della responsabilità del nostro operato istituzionale e pubblico, del nostro lavoro come un SERVIZIO»

    e molti altri silenti

    «per il quale occorre studio, tempo, continua costruzione di competenza, cosa fanno gli altri???»
    Si saranno rotti (e temo abbianio ragione) di farlo solo per la gloria, per la missione etc. etc., quando altre categorie di pubblici funzionari di settori non più sensibili sguazzano con gli stpendi puù alti d’Europa senza fare un caz20.
    Io anzi penso che la “missionairietà” diffusa e risalente dell’insegnante sia stata e sia un ottimo alibi perchè la politica del non fare nulla. (A parte far fare i promossi d’ufficio.)

    «Se posso andare a fare il commissario all’esame di maturità e dovere valutare il nulla e il vuoto di contenuti, se devo far diplomare anche chi neppure sa di che parliamo quando parliamo di “dialettica” 8per fare solo un esempio) in filosofia, in nome del fatto che ognuno in classe fa ciò che vuole, mi viene qualche dubbio…»

    Altro che! E allora? Qual è il ragionamento. La colpa è di chi non ha valutato gli insegnanti degli studenti, non degli studenti. Sicchè avremo degli studenti asini incolpevoli da fare promossi.
    Attenzione l’ho fatto anch’io; e a un livello più dannoso della maturità. E via.
    E si li avessi bocciati? Oggettivamente bocciati? Il Tar li avrenne ammessi? Si! E gli insegnati disonesti? De minimis non curat praetor!

    «Che senso ha, ma non per me, per me potrebbe anche avere un senso, ma che senso ha per i ragazzi, che senso ha per la funzione educativa che ha la scuola, cosa c’è di educativo in questo?»
    L’educazione a fare i furbi. Che non p poco in questo paese. L’educazione a stare attenti al contenente, piuttosto che la contenuto. Che in questo paese è ancora di più.

    «La libertà di insegnamento non si esercita in questo, io credo che se la valutazione acquistasse il suo reale significato euristico del processo educativo nessuno perderebbe nulla del suo patrimonio di libertà di insegnare.»
    Io invece sarei terrorizzato – non da docente, ma da cittadino – da una valutazione del processo educativo, per di più a valenza euristica.
    Perderebbe tutto, invece. Non non puoi ancorare la valutazione a dei paramentri non puoi valutare, e se fissi a dei parametri come fai a essere euristica?

    Il problema è molro più semplice e non è specifico della scuola.
    «Nessuno perderebbe nulla del suo patrimonio di libertà di insegnare.»
    Già. Ma la libertà di insegnamento è una libertà positiva, che non comprende la libertà negativa (se non quale effetto di un processo selettivo). Dunque essa non comprende la libertà di non fare nulla.
    Torniamo perciò al punto. Puoi valutare tutto, cioè controllare tutto, se ciò attiene ai limiti esterni: lavori, non lavori, fai finta di lavorare.
    Lavori male? Sei ingnorante? I controlli stanno a monte. L’asino non dovrebbe stare in cattedra. Ed è difficile diventare asini in cattedra. Si può essere trascurati. Ma in questo caso il controllo non occorre che si spinga all’interno, perchè il dovere di aggiornamento e quello di lavorare non hanno nulla che vedere con la libertà di insegnamento.
    E ora che cosa e perchè vogliamo valutare? Il c.d. merito per gli aumenti stipendiali? E quelli bravi e frustrati dai somari sono d’accordo? Suicidi! Saranno i somari a fare di più, perchè hanno tutto il tempo!
    Suvvia, un tema di italiano e a casa chi non adopera i congiuntivi; dopo di che si faccia pure grazia di nubilo o celiba, di leggittimazione, di piuttosto per almento, di sia che, di e/o, di attenzionare, di attimino, di celebrissino, miserissimo e via così, di xkè, e di altre amenità varie. Il congiuntivo basta, assicuro e word non lo corregge.

    «Ma forse l’università è un contesto diverso, forse i nostri target sono lontani perchè le nostre esperienze sono lontane… Spero che le tue siano davvero lontane dagli orrori ed errori grossolani con i quali mi confronto io tutti i giorni… in nome della “libertà” di cui parliamo.»
    Certo che è diverso. Se si può è peggiore.
    Le nostre esperienze non sono diversissime. Mi sono fatto un mazzo per otto anni nella, alla, e per la SISSIS (eco-giur).
    Ogni tanto la notte mi sveglio sudato freddo, perchè ho sognato che qualcuno è diventato insegnante dei miei figlioli. Di molti bravissimi, mi arriva notizia che non insegnano, invece.

    «Considera che la mia formazione e buona parte del mio lavoro si sono sempre svolti “oltre il Pò”, a Milano e dintorni.»
    Con tutto il rispetto quel luogo suscita in me rigurgiti lombrosiami. Dintorni? Tipo Bergamo/Gelmini? Tipo Bossi? !!!!!

    «Dove, a fronte di ben altre “mancanze” e di ben altre problematiche, l’esigenza di scientificità e di controllo è molto forte e molto sentita in tutti.»
    Tutti sarebbero gli imprenditori?

    Ho scherzato prima, ma non troppo, su segmenti e bastoncini, che da il titolo ad un amabile e tragicomico pamphlet di Lucio Russo sulla scuola; ma forse sulla … squola!
    Anche Diario di Pennac, non è male.

    Maria Teresa,
    che cosa ti piacerebbe che venisse valutato e come?

  5. 19 giugno 2011 alle 15:30

    Kelly Rowland _Stole

  6. 19 giugno 2011 alle 15:39

    Shakira -Rabiosa

  7. 19 giugno 2011 alle 15:43

    Shakira _No

  8. 2 agosto 2012 alle 16:12
    • Che frase ho trovato!!!
      La dedico a tutti noi che siamo o siamo stati educatori! Perciò la dedico ad Anna RomanoManuela SpognettaLuciano Calaresu, Vittorio Castellani, Farid Nicoletta OuazzeneLaura NigraDeana Panzarino ed alla figlia di Ketty Increta:

      “E’ più facile insegnare che educare, perchè per insegnare basta sapere, mentre per educare è necessario essere.”
      (Alberto Hurtado)

      Mi piace ·  · Non seguire più il post
    • Isabella Ramassa ‎Giampiero, credo che la frase di Hurtado abbia a che fare con l’etimologia della parola educare, dal latino “educere”, che è ciò che mi/ci hanno insegnato all’università e che noi aducatori cerchiamo di praticare nell’ esercizio della nostra professione.
    • Giampiero Tre Re

      ‎”Educere” dunque “portar fuori”. Agostino, nel “De Magistro” riconduce invece “insegnare” all’etimo “segno”, dunque “insegnare” è “fare segni” e sottolinea che si tratta di un’attività specifica dell’essere umano, in quanto questa produzione di segni si esplicita in maniera eccellente nel fare “segni verbali”, nella parola. “Facciamo segni” rispondendo ad una costitutiva nostra essenza consistente nell’ESSERE segni. Insomma: insegniamo perché “siamo” segni. E’ chiaro che qui sono individuate anche le condizioni di possibilità dell’imparare, quindi dell’educazione. Se dunque l’insegnare risponde alla condizione strutturale trascendentale della nostra essenza di segno, tale condizione essenziale è appunto il “maestro” che è in noi e che spontaneamente prende l’iniziativa d’imparare e insegnare. Il nostro essere intimamente esseri semantici prende così una forma triunitaria, perché questa cellula semantica originaria, questo originario essere espressi come segni, si rivela un’inscindibile unità trascendentale di maestro (segno-soggetto, che “fa segni”) parola (segno-oggetto) e attività dell’insegnare (il “fare segni”).
Comment pages
  1. No trackbacks yet.

Scrivi una risposta a matilda Cancella risposta