Nostra mafia quotidiana

“Reverendo, ma questa mafia, alla fine, cos’è ?”, chiese il papa al segretario dell’arcivescovo di Palermo.
“La mafia è quella che non si vede e non si sente, ma chi è nato qui sa vederla ovunque”, rispose il giovane prete.
L’ospedale costruito come un castello di sabbia è mafia, e medici e pazienti lo sanno;
La dilapidazione delle risorse ambientali, i cassonetti traboccanti e l’immondizia sparsa per strada, la gestione illegale dei rifiuti è mafia, e chi paga l’apposita tassa ogni anno più alta lo sa;
Il racket delle cooperative edilizie e il lavaggio di denaro sporco attraverso le sale gioco, il sistema degli appalti, i comitati d’affari, il voto di scambio è mafia, e chi ha dovuto ringraziare per avere come favore ciò che era già suo per diritto, lo sa;
L’abusivismo in aree pericolose o protette, il furto e la gestione illegale delle acque, il dissesto idrogeologico di intere regioni, la predazione del territorio è mafia, e chi è rimasto imprigionato e ucciso da questo fango lo sapeva.
Oggi ho sentito un prete predicare al cospetto del Sindaco di Palermo in occasione dell’inaugurazione della “Mostra della legalità” (!): “Preghiamo per le vittime della catastrofe naturale (sic!) che si è abbattuta sul messinese”. Ma forse chi ha parlato così era continentale, e dunque che questa non è affatto “natura”, bensì “mafia” e “politica”, lui non lo sa.

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  1. Maria Teresa Zito
    18 ottobre 2009 alle 8:29

    …. Anch’io un pò perplessa e divertita!
    Una manovra da accerchiamento, certo, intrisa di cultura letteraria e psicoanalitica di ottima qualità entrambe!
    Però… non potendo fare ameno di “guardare” e leggere nel modo che mi è proprio, mi permetto che le manovre di accerchiamento dicono molto di più sull’accerchiante e sul perchè della manovra stessa che su tutto il resto…
    Aggiungo: essendo un Blog un terreno particolare di confronto, è interessante osservare le relazioni tra chi scrive, a chi e come, oltre che il contenuto dello scrivere.
    Ancora psicoanalisi… allettante!
    Scusa Calogero, ma che cos’è la “tetta nera”????
    Ho quasi paura a chiederlo…
    Buona domenica.

    • kaloscam
      18 ottobre 2009 alle 20:35

      Si tratta di una licenza che mi sono concesso con riferimento al seno che in «Timore e tremore» Kirkegaard fa tingere alla madre al momento dello svezzamento. L’ho tirata in ballo perchè stavo resistendo alle tentazioni che mi lanciava GP su Giobbe, e perciò sulla conoscenza e la comunicazione attraverso i simbolismi. (Come dire tutta la hokma giobbiana racchiusa nei suoi versi). Ma comunque continuo a resistere, porchè stavolta è lui che ripiega nello strutturalismo per sostenere quelle differenze, che però nel dinamismo della vita tendono ad annullarsi.
      Ah, ah, ah.

  2. 19 ottobre 2009 alle 9:09

    Ma quale accerchiamento? 🙂
    Non perdiamo di vista il nodo della discussione, piuttosto, che vorrebbe legare il fenomeno mafioso ad un peculiare modo d’essere dei siciliani.
    -Veramente io non ho detto che nel dinamismo della vita le differenze tra dramma e tragedia tendono ad annullarsi; ho detto che sono quasi sempre mescolati, in innumerevoli combinazioni di dosaggio. E continuano ad esprimersi seguendo le rispettive nature. Può capitare, poi, càpita, che in qualche personaggio storico l’uno o l’altra si trovino allo stato pressocché puro.
    -Ti ringrazio per la stima, Kal, ma non ho davvero il potere di leggere nel pensiero. Quindi puoi cedere a cuor leggero alla tentazione di dire come la pensi sulla questione se dalla condizione tragica, di cui la sicilianità è un tipo, si possa, almeno teoricamente, fuoriuscire e se di fatto qualcuno, anche siciliano, ne sia uscito, e per quale via: sul piano storico intendo, ovviamente, oltre ai vari eroi letterari, come Edipo, Eracle e… Giobbe; oppure se tutti siamo destinati a rimanerci, magari sublimando esteticamente, come don Fabrizio o razionalizzando come uno qualsiasi dei personaggi di Euripide o Pirandello.

    • 19 ottobre 2009 alle 10:27

      >>Ma quale accerchiamento? 🙂
      Già quale? 🙂
      >>Non perdiamo di vista il nodo della discussione, piuttosto, che vorrebbe legare il fenomeno mafioso ad un peculiare modo d’essere dei siciliani.
      >>-Veramente io non ho detto che nel dinamismo della vita le differenze tra dramma e tragedia tendono ad annullarsi;

      L’ho detto io!

      >>-Ti ringrazio per la stima, Kal, ma non ho davvero il potere di leggere nel pensiero. Quindi puoi cedere a cuor leggero alla tentazione di dire come la pensi sulla questione se dalla condizione tragica, di cui la sicilianità è un tipo, si possa, almeno teoricamente, fuoriuscire e se di fatto qualcuno, anche siciliano, ne sia uscito, e per quale via:

      Anadandosene.

      >>sul piano storico intendo, ovviamente, oltre ai vari eroi letterari, come Edipo, Eracle e… Giobbe;
      ehè.
      >>oppure se tutti siamo destinati a rimanerci, magari sublimando esteticamente, come don Fabrizio o razionalizzando come uno qualsiasi dei personaggi di Euripide o Pirandello.

      Si così. (Una volta si chiamava- mi pare – pessimismo della ragione).

      Notarella:
      Sul piano individuale si può … “solo” come Giobbe. E pur non essendo kiregaardiano (forse di sensi di colpa nè ho anzi troppo pochi) e non tenendo come lui il libro di Giobbe sotto il cuscino per potremi addormentare (potrei provare però), nè credendo nell’efficacia della metafora della “tetta nera” (adattata al caso), nè tampoco condividendo “la sospensione dell’etica” (quantomeno per falsità del presuppoposto, anche i grandi possono banalmente sbagliare, solo che loro se lo possono permettere «!»; e cosa che nè Giobbe nè Abramo fanno), lo può fare la sequela di Gesù. Del resto cos’altro ha fatto don Puglisi (ma prima di lui tra i tanti altrive, mutatsi mutandis Romero)? La questione è non ha dunque risposta. Perchè non è peccato non essere matriri, nè dev’essere socilmente riprovevole non essere eroi.

      Aggiungo: avere paura della mafia (per un siciliano, il quale ab ovo conosce cosa essa è effettivamente è capace di fare, anche se non sempre è capace di riconoscerla) è legittimo sotto ogni profilo.

      Carico da undici: si provi a farne una questione di metodo. La mafia si manifesta nei modi dell’art. 416bis c.p.; si provi a vedere quante condotte di soggetti colletivi e loro membri deputati a essere esempio di legalità si ci possono sussumere (senza che sul piano tecnico facciano alcunchè di illegale). Ci si renderà conto che siamo a una guerra tra bande. Chi non fa parte di alcuna …

      (la conclusione è aperta e collettiva).

  3. 23 ottobre 2009 alle 16:13

    @MTZ
    Secondo me ti può interessare come seguito delal discussione

    Un Paese per vecchi

    SCUOLA di PREGHIERA

  4. 23 ottobre 2009 alle 16:41

    @webmaster
    c’è un messaggio con due link in moderazione

  5. 23 ottobre 2009 alle 17:52

    @MTZ
    Sono tutto rosso.

  6. Maria Teresa Zito
    24 ottobre 2009 alle 16:24

    ???? Vabbè, io ero seria e tu mi prendi in giro…
    Niente più complimenti. Da oggi solo commenti!!!

    • 24 ottobre 2009 alle 22:19

      A quale prendere in giro. I complimenti mi disarmano !

      • Maria Teresa Zito
        25 ottobre 2009 alle 0:34

        Tu disarmato???? Mi pare abbastanza improbabile…
        Faccio un pò di fatica a seguire tutti i dibattitti che si svolgono in questo Blog, sia per l’impossibilità di leggere tutto, sia perchè ci sono contesti e argomenti che mi sono veramente poco familiari.Tra te e Giampiero, il livello delle discussioni si mantiene elevatissimo… E’ un piacere leggervi, siete la tesi e l’antitesi di ogni discorso, vi rincorrete sui terreni della logica, anche se il vostro dire è sostanzialmente diverso, come diverse sono la vostra cultura e la vostra storia. Ma di una diversità che si fa dialogo, nel senso etimologico e bellissimo di questa parola… Ma come si fa a scrivere in greco col computer???? La mia ignoranza in materia informatica purtroppo è palese. te lo scrivo in italiano, ma tanto figuriamoci se non lo sai… DIA’ – LOGOS… “attraverso”…
        E’ questa condizione di attraversamento che fa il dialogo, non un semplice “tra”, un “discorso tra”, ma un discorso che può essere tra due interlocutori solo perchè ne ha attraversato la distanza e l’ha colmata, non necessariamente di condivisioni. Tra i commenti che mi segnalavi, leggevo la tua risposta a Rosa (… credo si chiami così) a proposito della non necessità di concordare sulle cose per continuare a dialogare… Ci sono dialoghi che non giungono alla condivisione delle conclusioni e che vanno avanti sulla scia del desiderio di conoscere un altro punto di vista, con curiosità e rispetto, con interesse puro per un pensiero altro. In questa che è un’arte semi sconosciuta, tu e Giampiero siete maestri.
        Ancora complimenti… sarai fuxia!
        Il mio amico Dino non si è ancora ripreso… e non dall’ubriacatura!
        Ragionare senza capire o senza imparare… hai detto da ubriachi, io avrei detto da stupidi…
        Ma forse, sarebbe stato un pò troppo!
        Buonanotte.

  7. 25 ottobre 2009 alle 11:09

    @MTZ
    So di greco quanto di astrofisica 🙂
    No, sul blog non credo sia possibile, allo stato, riprodurre i caratteri (occorrebbe, se esiste, installare qualche plugin). Bisogna traslitterarlo, magari in corpo italico (racchiudendo quanto in italico tra prova di corsivo.
    Noterai che mi sono riferito al latino e non anche al greco, (che non ho mai studiato e che riesco appena a leggere, giusto per potere cercare qualche concorda
    nza e afferrare qualche etimo). E comunque non lo sapevo il senso di “attraverso”.
    Anche se sono pienamente d’accordo. Tanto che andavo dicendo (in epoca pre-Gelmini, quando mi occupavo di formazione degli insegnanti) che al livello cognitivo la relazione docente discente è paritetica e che il docente non deve mai mettersi nella condizione di “trasmettere il sapere”, a deve continuamente stare all’arta per essere sempre sul piano del “comunicare il sapere”. (D. Dolci). Quello che tu hai detto in tre parole. Me ne compiaccio.
    Quanto al livello delle tesi è vero solo a metà: quello di GP.
    Certo a volte il dia-logo assume i caratteri della dia-triba -:) ma la cosa non dispiace. 😀 😀 😀
    Vado a Messa, buona domenica a tutti.

  8. 25 ottobre 2009 alle 19:04

    Grazie, grazie (qualcuno penserà che ci facciamo i complimenti da soli) 8)

    @Kal
    Era rimasto un discorso in sospeso:

    Nostra mafia quotidiana

    Vedo che ti preme soprattutto evitare il moralismo che si annida dietro ogni fondamentalismo, tipo: o si è eroi o mafiosi. Ho capito bene? Ovviamente siamo daccordo.
    Non mi è tanto facile spiegare quello che intendo dire, così te lo dico narrativamente. Ieri sera ho avuto un dia-logos con mio fratello sul tema “i mafiosi sono cristiani?”, dialogo il cui esito disastroso ha dimostrato che non possiedo affatto tutta questa maestria nel dialogo, come invece sostiene Maria Teresa. Io sostenevo che i mafiosi, come tutti noi, non possono non dirsi cristiani, “sotto un certo profilo” (cosa, quella tra virgolette, che ho omesso di esplicitare durante lo scambio di battute) e che negarlo ha lo scopo inconfessato di mettere in sicurezza la comunità ecclesiale rispetto a certe accuse, sottraendola così alle sue responsabilità storiche. Lui sosteneva invece che chi compie peccati di tale enormità (come i crimini di uccisione, tortura, rapimenti, stragi ecc.) è in contraddizione col proprio credo che, se professato pubblicamente, non può a quel punto che essere un’ipocrisia o un enorme errore di coscienza. Sosteneva anche che i mafiosi non possono dirsi cristiani perché manca loro un elemento essenziale della fede cristiana: la fiducia nella misericordia di Dio, dunque nel perdono. Questo infine farebbe, per mio fratello, la differenza tra un qualsiasi cristiano che pecca e un mafioso che si proclama cristiano.
    Difficile dire chi abbia dalla sua le migliori ragioni. Penso però che questo dialogo interrotto tra me e Roberto sia un po’ come l’altra faccia di quello tra me e te. Ricondurre tutto al nocciolo della responsabilità individuale, parlando di mafia, viste le sue imponenti peculiarità culturali non esaurisce, secondo me, il problema. Parlare di peccato/non peccato; crimine/non crimine non basta. Quando abbiamo introdotto il concetto di tragicità parlando di mafia, a questo mi riferivo. C’è una dimensione collettiva della moralità, che non va sottaciuta, pur vigendo il principio di responsabilità personale. Perché possono talvolta stabilirsi condizioni storiche e sociali tali, da rendere impossibile, o meglio, assai conflittuale il semplice agire secondo coscienza, al punto da poter richiedere l’eroicità delle virtù laddove in altre condizioni basterebbe magari un po’ di buon senso e buona volontà.

    • 26 ottobre 2009 alle 17:59

      Tre cose.
      1) Si senz’altro anche quello, come quasi tutti gli ‘ismi Ma anche:
      a)) o con me, o contro di me;
      b) contro il professionismo, alleaoto oggettivo (nella migliore delle ipotesi)
      c) …

      2) Sono d’accordo con te. Non si può escludere a priori che un mafioso possa essere cristiano, neppure però che un cristiano possa essere mafioso. (Statisticamente, mi pare prevelente!) Ciò posto un mafioso resta un mafioso rispetto alle relazioni terrene, e dunque, tanto per mettere carne al fuoco, il problerma e sempre lo stesso che facciamo con
      [greek]ºkoÚsate Óti ™rršqh ¢gap»seij tÕn plhs…on sou kaˆ mis»seij tÕn ™cqrÒn sou.
      ™gë ン lšgw Øm‹n ¢gap©te toÝj ™cqroÝj Ømîn kaˆ proseÚcesqe Øpンr tîn diwkÒntwn Øm©j [greek/]
      (non oso proporre alcuna traduzione)
      posto che non si distingue tra cristiano e non cristiano. Stabilire a livello umano chi sta fuori e chi sta dentro i cristiani serve solo a lavare la propria coscienza (senza valutazioni negative, se piece meglio trovare una plausibile ragione di sopravvivenza quando ci si guarda allo specchio) di fronte a un giudizio di condanna che finisce per travalicare quello penale e sociale.
      Non si tratta di sovrapporre i due piani, ma se i piani – che isntersecano per sè – si liberano si pone il problema delle N morali; senza ismi, ovviamente.

      3) «Perché possono talvolta stabilirsi condizioni storiche e sociali tali, da rendere impossibile, o meglio, assai conflittuale il semplice agire secondo coscienza, al punto da poter richiedere l’eroicità delle virtù laddove in altre condizioni basterebbe magari un po’ di buon senso e buona volontà.»
      Non v’ha da essere il menomo dubbio. Ma ciò rimane sul piano dell’analisi. Possiamo congetturare all’infinito sulle relazioni e sugli effetti in-considerati dell’agire individuale, possiamo perfino individure una coscienza collettiva, un agire collettivo con i conseguenti condizionamenti ambientali sull’agire individuale. Tuttavia sul piano dei rimedi non conta nulla perchè le condotte adottabili sono sempre individuali; esse sono collettive solo dopo essere state somma di condotte. Ma dall’individuo non si scappa.
      Rimango perciò convinto che l’unico agire collettivo, cioè sociale, cioè istituzionale che può innescare un virtuosismo nella condotte individuali non eroiche è quello di considerare eroica senza attrezzature speciali le condotte normali: semplicemente non devianti.
      Il che si traduce in un apparato che dia ascolto e immediata ed efficace risposta agli elementari bisogni della persona. Della persona, per sè. Non dell’eroe, non del martire.
      E’ per questo che alla fine dico: neanche tra mille anni, perchè se mille anni bastassero, bisognrebbe potere fermare l’orologio degli altri.

  9. rosarossadgl9
    4 novembre 2009 alle 17:24

    Mi contrappongo ai” Beati i miti” anche se non è l’atteggiamento di Gesù. Si dovrebbe vivere nell’attesa del giudizio di Dio senza farsi giustizia neppure quando sarebbe legittima?

    • 4 novembre 2009 alle 17:46

      Giustizia?
      Che cosa é?
      Agiti un tema complicato, quanto stimolante!

      • rosarossadgl9
        5 novembre 2009 alle 12:53

        Già cos’è?La garanzia del rispetto delle regole che mirano la libertà delle persone, quella che idealmente dovrebbe porre rimedio ad eventuali danni e che dovrebbe tutelare la libertà quando vengono oppressi?La giustizia quel sistema di valori che dovrebbe permettere agli uomini di convivere e agire liberamente? Solo utopia!

      • 5 novembre 2009 alle 21:03

        No! Non è utopia. Magari lo fosse.
        La giustizia è essenzialmente l’esercizio programmato della violenza per il raggiungimento di un scopo che, meramente in un sistema circoscritto spazio-temporale di relazioni intersoggettive di potere, viene assunto come il “bene” da contrapporre al “male” dei destinatari della violenza.

  10. Maria teresa zito
    4 novembre 2009 alle 23:59

    @ Calogero:
    Rileggevo stasera il tuo scritto di qualche giorno fa. Fra trasmettere il sapere e comunicare il sapere c’è la differenza tutta inscritta nell’etimologia: Trans vuol dire oltre, trasmettere vuol dire “mandare oltre” un sapere, oltre se stessi, verso gli altri. Un passaggio lineare, unidirezinale, tra chi sa e chi non sa.
    Il cum che appartiene alla comunicazione è un “CON” inconfondibile sotto il profilo del senso: comunicare il sapere è mettere in circolo le idee, porle dentro alla relazione con l’altro e farle passare attraverso la partecipazione dei significati che appartiene sempre alla relazione.
    La relazione docente – discente dovrebbe porsi certamente al livello della comunicazione e non della trasmissione del sapere. ma perchè sia così bisognerebbe che il docente conosca la relazione didattica nella quale si trova parte in causa e ne conosca soprattutto le regole.
    Buonanotte.

    • 5 novembre 2009 alle 11:20

      Da come lo scrivi sembra che non sia così di fatto. Eppure, negli ultimi tempi, si è data – a mio avviso troppa – attenzione alla didattica, al punto da perdere di vista che lo scopo della didattica è quello di essere un media nella comunicazione del sapere. Si è spesso finiti con il nascondere dietro il paravento di certi postulati docimologici la pressocché totale assenza di conoscenza disciplinare. Il media è finito per essere fine a sè stesso e non essere “media” di alcunchè, se non della sua stessa esistenza.
      La pariteticità cognitiva è spesso travisata e colpevolmente abusata; con essa si camuffa la mancanza di autorevolezza e si rinunzia perfino a esercitare l’autorità – che certo è più faticosa del volemose bene -, sterile quanto si voglia ma sempre meglio del vuoto assoluto.
      Io penso che la relazione didattica sia un abito mentale, non lo puoi fare indossare a chi non ha la taglia adatta e che non ha la taglia adatta è solo un mestierante, più o meno colto, più o meno onesto, più a meno laborioso.
      Servono anche i mestieranti, per carità; per questo sarebbe bene che essi siano prima di tutto tutti colti, onesti, laboriosi. Tra essi sarà poi facile cavare anche qualche docente; e pazienza se non sarà possibile per gran parte, avremo ridotto il danno.

      • 5 novembre 2009 alle 14:08

        @Maria Teresa e Kal.
        Interpreto l’aforisma di Danilo Dolci “comunicare il sapere, non trasmettere il sapere”, citato sopra da Calogero, nel senso che la relazione didattica è un tratto che definisce essenzialmente la natura umana, non meno della socialità e della comunicazione.
        Su questo v’è anche il conforto del pensiero di Agostino d’Ippona (De magistro).
        Si veda qui su terra di nessuno il seguente articolo (specialmente la seconda parte): “Di cosa parliamo quando parliamo di scuola”.

        Di cosa parliamo quando parliamo di scuola

  11. Maria teresa zito
    5 novembre 2009 alle 15:31

    Ho letto l’articolo segnalato da Giampiero.
    Il dialogo tra Agostino e Deodato esaurisce il senso della relazione didattica: la scuola è un luogo mentale in cui tutti insegnano a tutti, luogo di feedback continui in cui chi interroga e chi risponde si scambiano in continuazione i ruoli, almeno ad un certo livello. ed è singolare che si possa operare una rimozione tanto radicale di questo significato dell'”essere scuola” a vantaggio di un “fare scuola” nel significato di insegnare qualcosa a qualcuno.
    Ma credo che il discorso di Calogero si ponga ad un livello diverso, quello della dimensione relazionale intrinseca alla relazione educativa, e che vada in un’altra direzione.
    In questi anni a scuola ho visto tanto e cose di ogni genere rispetto a quali e quanti significati possa assumere la dimensione dell’autorevolezza (o eventualmente dell’autorità, se uno proprio non riesce a fare di meglio…) nel momento in cui si entra in rapporto con i ragazzi. Ha ragione Calogero quando dice che la didattica, volta a mediare dei contenuti sacrosanti e fondamentali, si svuota per tingersi da un lato del “volemose bene” e dall’altro (ma in fondo con lo stesso danno per tutti) del “qui comando io”…
    Ritengo che facciamo un grosso favore alla relazione didattica se non la spogliamo del suo senso originario, che è quello di creare le condizioni affinchè dei contenuti possano essere appresi e compresi, delle capacità possano trovare spazio per esprimersi, delle potenzialità possano tradursi in competenze vere, spendibili al di là del contesto nel quale sono coltivate.
    E questo non vuol dire che l’essere scuola si esaurisca qui, ma che è imprescindibile che parta da qui.
    Spesso dietro alla didattica del “volemose bene” si cela solo un vuoto di contenuti e un’assenza di metodo, quando non l’incapacità di stabilire relazioni per forza di cose asimmetriche con gli altri. Inutile dire che tutto questo affonda le sue radici nella storia del docente, nel suo rapporto con l’autorità e con il senso dell’autorevolezza, nell’immagine che ha di sè e che vuole o è costretto a dare di sè.
    lo stesso accade, paradossalmente, quando la relazione didattica è improntata all’autoritarismo, al clima del terrore, al possesso di u registro attraverso il quale si decide la sorte degli altri.
    Ancora una difficoltà, anche qui, una impossibilità, a confrontarsi con la dimensione della asimmetricità dei rapporti, dove questa asimmetricità è sentita come pericolosa e minacciante. e dunque, anche qui, l’attivazione di un processo difensivo.
    concludo, Calogero, dicendoti che concordo pienamente con te sul fatto che si tratti di un abitus mentale che non tutti riusciamo ad indossare, meglio in alcuni momenti della vita, peggio in altri, perchè è un abitus significativo e significante che ci mette in gioco e mette in gioco parti di noi con cui, magari, facciamo i conti per la prima volta.
    Io credo che essere un buon genitore ed essere un buon insegnante siano due cose non lontane tra loro, e che in entrambi i casi siamo chiamati a vivere una relazione dentro la quale far passare vicinanza e distanza, presenza e assenza, autorità e autorevolezza, uguaglianza e diversità in una misura sempre diversa e sempre, purtroppo, tutta da inventare.
    @ Giampiero:
    Sarebbe importante, in questo momento, se vuoi, aprire un dialogo sulla riforma scolastica, magari riprendendo l’articolo che hai segnalato e che magari molti non hanno letto.
    buona giornata

  12. rosarossadgl9
    5 novembre 2009 alle 22:43

    e quando viene sfruttata la propria posizione di potere per costringere o comunque indurre a far silenzio come si chiama questa?Il male fra virgolette come lo definisci tu nel mio caso si chiama” pazienza” che sopporta e perdona e che non è in grado oggi di tirare fuori dalla malvagità e dalla violenza coloro che ne sono dentro fino al collo.

    • 6 novembre 2009 alle 12:20

      «e quando viene sfruttata la propria posizione di potere per costringere o comunque indurre a far silenzio come si chiama questa?»
      Mafia.

      Le mia virgolette di male erano enfatiche, come quelle di bene; servivano per tracciare il parallelo. Cioè la nozione relativa e complementare di bene e male per definire un sistema di giustizia.

  13. Sebastian
    16 novembre 2009 alle 7:59

    Ieri su Repubblica ho letto un articolo suppongo pertinente a questa frazione del blog.

    * * CHIESA E MAFIA QUARANT’ ANNI DI SILENZI E RITARDI * *

    di Nino Alongi – da Repubblica (ed. Palermo) del 15.11.2009

    La notizia della “scomunica ai mafiosi”, sottolineata nei giorni scorsi da monsignor Mariano Crocetta, segretario generale della Cei, non ha suscitato particolare clamore. E’ apparsa una notizia scontata. In verità, scontata alla luce del Vangelo, ma meno alla luce della storia della Chiesa, rimasta per anni scandalosamente silenziosa sulla mafia. Un comportamento, come è stato rilevato, che ha delle attenuanti: le particolari condizioni storiche dell’Isola, le stesse radici culturali dei siciliani. Ma anche le vicende del secondo dopoguerra, caratterizzate dallo scontro politico ideologico tra cattolici e comunisti, e la tradizione “eversiva” legata alla polemica risorgimentale dei cattolici nei riguardi dello Stato. Per quanto importanti, le motivazioni storiche non possono però giustificare nè cancellare un comportamento strettamente legato alla stessa professione di fede. La Chiesa siciliana si è arroccata per lungo tempo sulle posizioni del cardinale Ernesto Ruffini, che tendeva a ridimensionare l’incidenza del fenomeno mafioso per «troppo amore» nei riguardi dell’Isola, come sostenevano alcuni, o «per scelta politica», come insinuavano altri.

    Quando con il cardinale Salvatore Pappalardo è cambiato finalmente l’atteggiamento della Chiesa siciliana, essa non ha avuto, come ha rilevato Cataldo Naro, parole «sue» per parlare della mafia. E non poteva averle. Intervenendo sull’argomento, ha adoperato pertanto quelle parole che venivano dalla mobilitazione antimafia della società civile. Solo in seguito alla morte per mano mafiosa di figure inconfondibilmente cristiane, come quella di padre Pino Puglisi, il linguaggio ecclesiastico ha riattinto dalla specificità cristiana e si è sintonizzato con il linguaggio che Giovanni Paolo II aveva usato nel suo ultimo viaggio in Sicilia, con il ricorso ad antiche parole cristiane quali peccato, giudizio di Dio, diavolo, martirio.

    A questo linguaggio ricorre adesso il pronunciamento contro il potere mafioso del segretario della Cei. Un intervento quanto mai opportuno. Ancora oggi però, malgrado la sensibilità manifestata in più occasioni dalla Santa Sede e malgrado le tante dichiarazioni da parte della gerarchia ecclesiastica isolana e di espressioni significative della cultura e della militanza cattolica, non è stato fatto nell’ambito ecclesiale un studio complessivo sul fenomeno mafioso né esiste una pastorale antimafia. Le richieste e le proposte venute a più riprese da parte di laici e religiosi non hanno mai trovato risposte soddisfacenti. Per un ventennio è rimasto celato nei cassetti un carteggio estremamente significativo intercorso negli anni Sessanta tra il Vaticano e la Curia di Palermo. Dopo la strage di Ciaculli (1963), che aveva provocato la morte di sette militari artificieri, il cardinale Ruffini ricevette una lettera (pubblicata da Francesco Stabile su Segno, numeri 101/102, 1989) di monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della segreteria di Stato vaticana, che gli chiedeva, certamente su suggerimento del nuovo Papa Paolo VI, un intervento specifico contro la mafia e una pastorale adeguata alla situazione. Ricordando il coraggioso manifesto della Chiesa valdese, Dell’Acqua chiedeva al cardinale di valutare «se non sia il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un’azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità della cosiddetta “mafia” da quella religiosa e per confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della buona popolazione siciliana, di pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana».

    La risposta non si fece attendere, ma non fu quella sperata. ilcar dinal mise in dubbio la stessa esistenza della mafia, ma soprattutto respinse infastidito l’insinuazione di una possibile associazione tra la mentalità mafiosa e quella religiosa. «L’apostolato che viene svolto con assiduità in tutte le parrocchie è in netta contraddizione con la delinquenza che, qualunque forma rivesta, è sempre riprovata e condannata, come è palese a tutti. L’azione, cui Vostra eccellenza accenna, “d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale” è tutt’altro che trascurata».

    Da allora sono passati molti anni e tanti atteggiamenti sono cambiati all’interno della Chiesa e della società civile. La mafia è cresciuta, ma è cresciuta anche l’azione di contrasto dello Stato. Eppure l’attualità che conserva la lettera di monsignor Dell’Acqua sorprende e rattrista.

    P.S.
    Considerazione personale (mia, di Sebastian).

    La lettura di questi articoli mi da sempre più la consapevolezza di quanto io sia distante dalle location & ambient raffigurate. E di quanto lo sia, inoltre, anche la gente che giornalmente frequento nella mia normale attività e vita quotidiana. La distanza è jurassica. Esattamente tutto il contrario di ciò che dovrebbe essere. Pazzesco!

  14. Sebastian
    6 dicembre 2009 alle 19:34

    C’è d’augurarsi LA RIVOLTA dei pesci piccoli! Chissà mai!

    • 7 dicembre 2009 alle 8:29

      Radio TdN
      Avion Travel, Brucia la terra

      Brucia la luna n’cielu
      E ju bruciu d’amuri
      Focu ca si consuma
      Comu lu me cori

      L’anima chianci (1)
      Addulurata

      Non si da paci
      Ma chi mala nuttata

      Lu tempu passa
      Ma non agghiorna (2)
      Non c’è mai suli
      S’idda non torna

      Brucia la terra mia
      E abbrucia lu me cori
      Cchi siti d’acqua idda
      E ju siti d’amuri

      A ccu la cantu
      La me canzuni

      Si non c’è nuddu
      Ca s’affaccia
      A lu barcuni (3)

      Brucia la luna n’cielu
      E ju bruciu d’amuri
      Focu ca si consuma
      Comu lu me cori

      (1) piange
      (2) non fa giorno
      (3) balcone

  15. Sebastian
    6 dicembre 2009 alle 19:41

    ATTENZIONE, QUESTO VIDEO CONTIENE SCENE DI ESPLICITA VIOLENZA. PERTANTO E’ CONSIGLIATO AD UN PUBBLICO ADULTO E CONSAPEVOLE.

    ^ dal film BRONX (Robert de Niro 1993) RISSA tra mafiosi e bikers ^

    Min*kia! Oserei dire!

    Non è Angelino Alfano il protagonista. Gli somiglia, è palese, ma non è lui…. è Sonny, questo qui.

  16. 1 febbraio 2010 alle 17:22

    Un po a margine. Ma non troppo, ho scritto qualcosa qui appresso

    http://www.piolatorre.it/asudeuropa/sfoglia.asp?id=116

    alle pp. 5-6 della rivista.

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